una recensione a cura di Ezio Genitoni
Lee Chang-dong non delude e confeziona un film in linea con il suo precedente acclamato “Poetry”. Zeppo di segni, declina nel mistero l’incomunicabilità nei rapporti interpersonali e le differenze sociali.
L’aspirante scrittore Jong-su e la frizzante Hae-mi s’incontrano casualmente sulle strade di Seoul. I due giovani, serio ed Imbranato lui, entusiasta e disinvolta lei, condividono la mancanza di un’occupazione stabile e l’incertezza nel futuro. Nasce subito un’avventura. Ma al ritorno da un breve viaggio, Hae-mi si presenta in compagnia del benestante quanto misterioso Ben. Jong-su non ne è affatto felice, ma i tre iniziano a frequentarsi.
Quello che l’autore mette in scena, a partire dal racconto “Granai incendiati” dello scrittore giapponese Haruki Murakami, è un thriller ipnotico e inconsueto dai contorni inafferrabili. Silenzioso, a tratti immobile, ma affascinante.
Ė debitore, sotto alcuni aspetti, al capolavoro di Michelangelo Antonioni Blow-Up: thriller altrettanto anomalo; ne condivide, oltre all’atmosfera anche lo sfumare progressivo degli eventi che confluiscono nella rinuncia alla risoluzione dell’intreccio.
Rinuncia che è figlia dell’impossibilità di comunicare, di conoscere e quindi di agire in base a fatti e sentimenti di fatto incomprensibili. La vicenda perde importanza di fronte al suo significato. Tale stallo rende il protagonista incapace di scrivere alcunché, rendendo sterile il suo desiderio.
In una delle prime scene, a sostegno di questa chiave di lettura, la protagonista sbuccia, mimandone i gesti, un frutto immaginario che potrebbe esistere ma non si vede. Allo stesso modo, altri elementi subiscono la stessa sorte: ora un gatto, ora un pozzo, ora un telefono senza interlocutore. Si giunge a dubitare dell’autenticità del viaggio di Hae-mi alla volta dell’Africa. Infine l’ardere degli incendi (burning), fatica ad apparire nella realtà.
La sequenza clou del film è incastonata nel tessuto narrativo quasi fosse una pietra preziosa. Al pari di Florence (Jeanne Moreau), di notte, a Parigi, anche Hea-mi è come perduta, al tramonto, nelle campagne alla periferia di Seoul. La sua danza sulle note di quello stesso Miles Davis di “Ascensore per il patibolo” (Louis Malle) è il momento più suggestivo. Fotograficamente il controluce staglia la figura della ragazza sui colori accesi della natura in un paesaggio, però, fortemente contaminato da elementi antropici e poveri. Quando la musica termina e il suo movimento continua per pochi secondi, la ragazza è nuda, fragile, pietosa: fantasma del personaggio sicuro di sé conosciuto fino a poco prima. Da quel momento scompare.
Jong-su, che già ha assunto il ruolo di detective, tentando di scoprire dapprima la veste di Ben, ed in seguito, più coraggiosamente, di ritrovare la sua Hae-mi, non viene a capo di nulla ma dà un epilogo a ciò che non ha mai scritto. Inaspettatamente ripaga il rivale con la sua stessa moneta: il fuoco. Lo fa in modo drammatico e allucinato: bruciando l’uomo e spogliandosi dai propri panni realmente e simbolicamente in un atto liberatorio.
Solo ora, a giochi fatti, ci si rende conto che anche la sorte, come pure nel citato film di Antonioni, è tema su cui riflettere. L’incontro di Jong-su ed Hae-mi, nei primi minuti del film, avviene infatti grazie all’estrazione di un bussolotto.