associazione di promozione sociale

PARASITE | Memorie del sottosuolo

una recensione a cura di Elena Pacca

Inizia un gioco di scaltrezza. Apparentemente innocuo, in quanto poco destabilizza la ricca famiglia che usufruirà dei servigi a vario titolo millantati ma efficacemente e pervicacemente messi in atto dalla famiglia sottoproletaria, adusa ai sotterfugi per sbarcare il lunario, ma con quell’astuzia che li eleva al di sopra del montare a cottimo (peraltro anche male) cartoni da pizza in un basso sotto la guida di un tutorial on line per il quale è necessario potersi connettere abusivamente alle reti altrui. Poi si giunge ad un punto che pare in stallo allorquando tutti i componenti, prima il figlio, poi la figlia, poi il padre e da ultimo la madre, sono operativamente in forze – insegnanti, autisti, domestici – con reciproca soddisfazione da parte di entrambe le famiglie, in un gioco delle parti o di ruolo che pare perfettamente oliato e destinato a rinnovarsi giorno dopo giorno per un bel po’. Tra qualche intrallazzo meschino e qualche vera e propria bastardata, perpetrata da individui palesemente immorali e senza scrupoli. Ma accade qualcosa che sovvertirà l’ordine della storia e con essa il prosieguo del film. Come una discesa agli inferi, scendiamo le scale di quello che l’architetto famoso ha fatto realizzare – ed è rimasto un segreto fra lui e la sua governante che subentrerà con il medesimo ruolo anche presso la ricca famiglia che prenderà appunto possesso della casa – come bunker, eventuale rifugio antiatomico per un ipotetico ma paventato attacco nucleare nordcoreano. Ed è come una discesa di livello. Un alto/basso, un sopra/sotto non solo geografico ma concettuale. Come un darkweb di connessioni illecite che si ampliano e si propagano nella parte sommersa dell’iceberg. Perché quello che vediamo in superficie è solo una piccolissima parte di ciò che si agita nel sotterraneo reale e mentale dei protagonisti, comprimari e non. Si fa sempre più evidente il divario sociale fra chi è considerato perbene e vive in un mondo a parte circondato di etichetta, buone maniere, buona educazione, noia e simboli di un capitalismo spinto e chi invece è servo della gleba, costretto suo malgrado a comportarsi male, ad essere ruffiano, opportunista e così disperato da sopraffare chi è ancora più disperato. Chi è costretto a cercare di respirare per non essere sommerso dai detriti della propria vita, accatastati e dispersi dall’irruzione delle piogge torrenziali che invadono il basso e tutto il quartiere di persone relegate ad un’analoga condizione e mettono in pericolo un’intera esistenza e con essa una parvenza di vita socialmente accettabile. Da un certo punto in poi è come se procedessimo in un gioco perverso, legati ai vagoni lungo un tunnel degli spettri, con le immagini che ci prendono a pugni. Talvolta li vediamo arrivare talvolta ne avvertiamo solo la potenza dei colpi che ci indolenziscono lungo un percorso dal quale non si esce, dove l’orrore macera come in quei vasi di conserva allineati lungo la dispensa, confine indicibile che sottende mostruosità perpetrate sino all’epilogo finale. Che non può che essere una duplice vendetta. Ogni parola, ogni gesto di chiunque risuona e si prefigura come un esercito di acari giganteschi che non ci abbandonano, che ci rimangono attaccati e che infettano la nostra visione dove non si salva nessuno, dove non si parteggia e non ci sono né cowboy, né indiani, nonostante i piumaggi. Dove l’inganno è regola, e dove la differenza di classe è anche un odore, un immarcescibile odore connaturato ai poveri (potentissima l’immagine del padre che supino, nella semi-immobilità dello stare nascosto per non essere scoperto si annusa comunque la camicia per verificare le parole udite origliando il padrone di casa) ma di cui il ricco ben ne riconosce l’afrore e con esso la sua ripugnanza e il suo essere irresistibilmente schifoso tanto da voltare la testa con un gesto che – una volta intercettato e visto nella sua universale portata – equivale a una sentenza, l’inappellabile sentenza che ne decreta la morte. Parasite si prende tempo, tutto il tempo che vuole per arrivare a questa condanna capitale che fa diverse vittime da una parte e dall’altra e dove non c’è nessun intruso sulla scena. Poi c’è un tempo immaginario che consente di avventurarsi nel sogno, nel miraggio di un mondo possibile. Dove altri scatoloni sono al centro di stanze spoglie e spogliate di senso, approdo di un inizio che possa essere diverso da quello che a suo tempo è toccato in sorte.

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