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PINOCCHIO | O l’incontro dei due mondi

una recensione a cura di Alessandro Cellamare

Dopo Il racconto dei racconti e Pinocchio, forse è il caso di interrogarsi sull’anima del cinema di Garrone, e questo al di là degli esiti della singola opera, analisi che potrebbe risultare tutt’altro che fine a se stessa, quanto in grado di gettare nuova luce sulla sua filmografia.
I due titoli fantasy spiazzano i fedeli “noir” del regista romano e, in franchezza, si fa grande difficoltà a considerarli i punti più alti della sua carriera, apparendo, anzi, come dei bizzarri elementi estranei in cui il regista romano non sembra nuotare a proprio agio come in altre ed enormi e immancabili opere, da Primo amore a L’imbalsamatore, passando per Gomorra e finendo con l’insuperabile Dogman. Nel genere fantastico tout court Matteo Garrone appare portare con sé una sorta di legnosità e schematicità fiabesca nonostante i suoi tentativi di innesto “carnale”, anche nelle sue forme più sporche e disturbanti. Il personaggio di Pinocchio, in questi termini, sembra emblema di questo percorso e tentativo, burattino che cerca di diventare carne e ossa esattamente come la fiaba di Garrone punta a diventare monstrum realistico e contemporaneo. La trasformazione si ferma a metà e non si giunge al lieto fine del racconto di Collodi: Pinocchio fatica a farsi amare, appare sporcato dal tocco di Garrone nella prima parte, ha una fotografia tante volte ammaliante (le promenades del burattino, i colori dei campi), eppure perde fiato, passa da una scrittura eccellente (l’incontro col Gatto e la Volpe) ai dialoghi infantili – e non per delicatezza e purezza – con la Fata Turchina, si perde in frammentarietà che non si possono giustificare con l’opera di provenienza, e manca, infine, di un vero racconto di formazione, perfettamente nelle corde e abilità di Garrone ma, qui, perduto.

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Fuori dall’analisi della singola opera, è, tuttavia, non poco interessante domandarsi dell’origine di questa necessità fiabesca. Come conciliare le atroci storie umane e popolari del regista romano con il desiderio di narrazione fantastica? Due mondi distanti che cercano di toccarsi e probabilmente ritratto tutt’altro che banale di una realtà. Si azzarda l’ipotesi, cioè, che la stessa filmografia di Garrone sia testo antropologico di una cultura locale estrema, che laddove mostra il viso più atroce della camorra, dall’altro fugge verso gli ideali favolistici, un territorio in cui il crollo furioso verso l’inferno della criminalità non poteva che generare un impulso verso lande più pulite e persino immaginarie e fantastiche. Sotto questa luce, Garrone raccoglie l’eredità dei due mondi partenopei e ne tenta la conciliazione, l’ibridazione contro la dicotomia, e se da un lato il suo cinema più famoso e brutalmente realistico ha tratti che rimandano al fiabesco, quello fantasy è inquinato di crudi radicamenti verso la terra e lo sporco dell’inconscio.
E’ mistificazione/mitigazione/illusione cinematografica sulla e della realtà o un tentativo di emersione degli archetipi universali e fondanti?

Negli anni 70 un anime giapponese su Pinocchio approdò sugli schermi televisivi italiani, segnando i bambini di quella generazione e della successiva.
Il suo ritornello, forse, racconta del fiabesco di Garrone più di quanto la critica possa fare.

Pinocchio, ma dove vai?
Pinocchio, ma cosa fai?
Pinocchio, la fantasia è solo una bugia.

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