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SORRY WE MISSED YOU | La Vita per un furgone ovvero quanto vale una vita nell’era di Amazon: gli schiavi del nuovo millennio

una recensione a cura di Simona Tarantino

Quando il lavoro ti ruba la vita e ti distrugge l’esistenza intera, oltre a rovinare e trascinare sull’orlo del baratro intere famiglie di ceti sociali medio-bassi, i cosiddetti nuovi poveri”: si può ancora morire di e per il lavoro oggi? Quali sono le frontiere del nuovo sfruttamento lavorativo e di classe oggi?

Queste le domande incalzanti che ci balzano alla mente mentre assistiamo alla proiezione di questo ultimo suo capolavoro, coinvolti, toccati empaticamente, commossi. Calati in prima persona dentro la vita privata e le vicissitudini dei suoi protagonisti, arrivando anche a riconoscerci e rispecchiarci in certe loro dinamiche, come fossimo lì presenti e con loro: questa è la maestria indiscussa di Ken Loach.

E non stiamo parlando delle morti bianche sul lavoro, legate a cause accidentali, imprevisti ed imperizie tecniche, negligenze (se così volessimo anche chiamare la quasi assoluta assenza talvolta o la non applicazione e rispetto delle più basilari norme per la sicurezza sui posti di lavoro), ma di ben Altro…

E’ Qualcosa di più silenzioso e taciuto, di più subdolo ed implacabile. Stiamo parlando del nuovo assetto sociale riorganizzativo della scala gerarchica sociale del nuovo millennio, nella prospettiva ormai reale e radicata della scomparsa e cancellazione pressoché totale dei ceti piccolo-medioborghesi, della strage silente di questa classe, per l’allargamento della forbice e del divario sempre più crescente tra il ceto mediobasso e quello alto: non ci saranno più le mezze misure. Sono queste le nuove condizioni economiche imposte dal mercato globale: una corsa verso nuove forme di povertà e di solitudine.

Uno stravolgimento che è un tuffo indietro nel passato, regressivo di secoli nella storia sociale e dei diritti umani soprattutto, dove vengono spazzate via tutte le conquiste di decenni e di mezzo secolo di lotte ed associazionismo. Praticamente ed in parole povere stiamo parlando dei nuovi poveri con le loro misere vite con l’acqua alla gola e dei nuovi ricchi, sempre più arrivisti e spregiudicati questi ultimi. Dell’assenza di tutele per i più, e delle caste di privilegi per pochi, per le elìte.

Da sempre impegnato e apprezzato come regista delle tematiche sociali a sfondo sia storico che politico-economico che ripropone, sviscera continuamente nei suoi film, perché tanto gli stanno a cuore, Ken Loach, ritenuto dalla critica inarrivabile e impareggiabile, è impegnato da sempre come attivista nelle lotte per i diritti civili delle classi operaie e disagiate, probabilmente per questo riesce sempre a girare dei veri e propri documentari e storie di scottante e scomoda attualità grazie anche alle sue umili origini, (figlio di una famiglia di lavoratori proletari), che gli donano questa grande capacità d’immedesimazione e di personale tocco umano.

Ken Loach con grande maestria dunque e il suo taglio inconfondibile da documentarista-giornalista impegnato, tenta qui un approccio di stampo soprattutto sociologico e psicologico, con un occhio umano più introspettivo rivolto verso le personalità dei protagonisti e le loro difficoltà, le loro dinamiche, indaga e scava nell’abisso dell’animo umano, attraverso il mondo del precariato di oggi (non senza valorizzarlo), fenomeno di vera e propria deriva ed emergenza sociale, rilasciandocene un tagliente spaccato sociale nonché una denuncia delle sue condizioni di estremo disagio: ne esplora le sfumature della sofferenza, dell’incertezza e della disperazione connesse alla crisi occupazionale impiegatizia e socioeconomica, in cui versa un’intera fascia sociale, quella appunto che sta per essere spazzata via dalla crisi economica, quella più debole e sacrificabile del proletariato urbano. Contestuale e simultanea di questo fenomeno, che Loach non relega in secondo piano nella narrazione perché non meno importante anzi strettamente connesso, è la crisi e l’esplosione del sistema familiare, di interi nuclei messi a soqquadro, dei loro singoli componenti coinvolti in misura diversa e stravolti nelle loro vite, che vacillano in cerca di nuovi assetti ed equilibri, di stabilità e di certezze, di punti di riferimento vedendosi crollare impotenti il terreno sotto i piedi. Indagine psicologica spinta al massimo: Loach ce ne lascia intravedere e comprendere le innumerevoli ragioni sottostanti le scelte o non scelte di vita, le decisioni fatali al limite dell’improvvisazione viste per assurdo come passaggi obbligati di intere esistenze umane.

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Nuovamente qui K. Loach ci ammalia e colpisce riprendendo una storia tanto ordinaria e comune quanto commovente (con questa sua capacità di rendere e trarre l’eccezionale dalla normalità e quotidianità), quella di un rispettabile e volenteroso, dedito capofamiglia della classe dei lavoratori-working class, Ricky, che di colpo a seguito della crisi del settore edile in cui ha da sempre lavorato perde il lavoro, iniziando così a saltare da una mansione-mestiere ad un’altra in un’escalation senza più controllo: per l’ennesima volta per sopravvivere e poter mantenere la sua famiglia tenta di arrabattarsi e arrangiarsi come può e approda così al settore nuovo delle spedizioni e consegne domiciliari, settore in grande crescita esponenziale, in un’impennata senza precedenti, che gli lascia intravedere uno spiraglio, una via di uscita, se non addirittura la realizzazione dei suoi sogni, come l’acquisto di una casa. Fin qui nulla di eccezionale se non che proprio Qui paradossalmente, in uno stato di esaltazione dei sensi, crede di aver finalmente ritrovato il potere ed il controllo perso sulla sua vita, e di essere approdato dopo infinite peripezie sulla terra promessa… ma non sarà così. I pericoli e le insidie si nascondono e lo attendono proprio dietro l’angolo, già subito al primo colloquio, vero e proprio specchio per le allodole: ecco l’incipit del film che ne racchiude tutto il suo senso profondo.

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Unica ed originale questa storia di ordinaria e banale quotidianità, assunta da Loach come paradigma rappresentativo di un’intera generazione di uomini alla deriva e falliti dal punto di vista lavorativo, col suo tocco umanista e sociologico, è tutta arricchita di nuovi e inediti punti di vista, angolazioni di sguardi possibili, lasciandoci intravedere la crisi di valori sociali latente di un intero sistema, non solo quello familiare, crisi sempre più esplicita e dichiarata, tanto che neanche il più tradizionale e classico dei valori, quello della famiglia per eccellenza, da sempre ritenuta sacra nella tradizione cattolica Irlandese, riesce più ad ammortizzare e contrastare, a reggere all’urto, nulla può fare se non assistere impotente alla sua autodistruzione-disastro finale o comunque alla sua messa a dura prova.

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Ma è veramente così? Ne uscirà distrutta completamente o fortificata? E ne Risulteranno più rafforzati o indeboliti questi legami familiari così messi alla prova? Vedremo come tutta questa famiglia, superando le divergenze singole si stringe attorno a lui, per riaverlo indietro e salvarlo, per tornare unita. Chissà se Loach non stia indirettamente auspicando anche ad una rivalutazione e ad un ritorno dei veri valori umani e sociali, essenziali, contro il dilagare della corruzione, della spregiudicatezza, della disonestà e arrivismo-cinismo (di cui ne è l’esempio il suo presunto “titolare”), amplificati dalla mercificazione consumistica della società globale, della “Gig Economy”. O non ci stia suggerendo forse l’importanza di una famiglia o rete sociale solida di sostegno alle spalle, quali gli affetti, come contenitore ed ammortizzatore della caduta, come vero e proprio “paracadute”, o “bussola” per non perdersi.

Nell’affannarsi meccanicamente e perpetuamente in mezzo a mille problemi legati al precariato noi assistiamo inermi e con rassegnazione allo sfascio e all’implosione della famiglia di Ricky, come di tante altre famiglie intere, spazzate via spesso dietro ai ritmi forsennati di lavoro di entrambi i coniugi o del capofamiglia e, cosa non meno importante, alla perdita finale dei veri valori di Se stessi e degli Altri come può anche suggerirci il titolo Sorry We Missed You”, in un’altra e più sottile chiave di lettura. Non è solo un gioco ironico di parole, ma verosimilmente una storia di perdita di dignità personale inanzitutto, poi deprivazione identitaria e di senso esistenziale, di alienazione individuale, dovute all’annullamento imposto nel lavoro, presso intere fasce sociali, senza né tutele né garanzie, con vite condotte allo strenuo delle forze fisiche e mentali e al limite della sopravvivenza. E’ così inevitabile arrivare ad ammalarsi e soccombere che, per il protagonista Ricky è soltanto una questione di tempo in questa sua vita a cronometro, in questa sua lotta e corsa ad ostacoli contro il tempo, diventata solo più folle, pericolosa e dissennata nonostante la parvenza iniziale poi smentita, di colpo di fortuna accidentale o vincita alla lotteria.

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Seguiamo passo dopo passo la sua parabola in salita e poi in discesa a picco, la sua caduta libera che passa dall’entusiasmo iniziale del colloquio infarcito di miraggi e di promesse adulatrici quanto ingannatrici, ai voli pindarici nell’acquisto del suo furgone, mettendo in ginocchio l’equilibrio, le dinamiche, l’intera economia domestica, il lavoro della moglie Abbie privata della sua macchina per spostarsi da un assistito ad un altro, da un anziano ad un malato, e il menàge familiare, il rapporto con i figli, con la moglie, fino all’ultimo atto del dramma umano di Ricky, quando con un ultimo gesto folle, insensato e suicidario, ormai quasi impazzito del tutto e privo di lucidità mentale per l’ossessione di dover estinguere i debiti continuamente e assurdamente contratti, sceglie lo stesso di partire con il suo furgone per la giornata lavorativa in condizioni già compromesse, sapendo di andare più o meno consapevolmente incontro a morte sicura. Per taluni un finale aperto, non scontato, ma per altri, potrebbe anche essere pessimistico, un monito severo, in ogni caso non banale o da sottovalutare.

Raggirato con furbizia e subdole strategie, caduto nella trappola invisibile tesa da un titolare scaltro e senza scrupoli, con le promesse di un lavoro imprenditoriale e autonomo da autogestire da sempre sognato, salvo poi scoprire che non lo è affatto per i costi da capogiro da sostenere, i ritmi forsennati e impossibili da reggere a lungo tanto da pregiudicare la sua salute fisica e mentale: da qui, imbottigliato come sarà, non riuscirà più ad uscirne fuori se non con un gesto incosciente e irragionevole ma comunque ed in ogni modo, a caro prezzo, come fosse entrato dentro una rete di fili invisibili, quale è la tela di un ragno, un percorso dispersivo e labirintico, senza sbocchi. Il non saper più fare un passo indietro, il non potersi più fermare per tempo e arrendersi qui lo porterà dritto dritto verso il baratro finale: è l’apoteosi-culmine di una lunga concatenazione di fatti stravaganti, anche simpatici, una sequenza di comportamenti a volte sprovveduti, ingenui e coincidenze impreviste e parossistiche dietro l’angolo (l’aggressione e il furto ai suoi danni, la multa salata), che anche fanno sorridere ma di fondo hanno un sapore molto amaro e tragico, diremmo tragicomico, come saprebbe fare una Commedia surreale o un racconto pirandelliano o kafkiano nell’apice pieno del dramma umano.

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E Non servono ormai nemmeno più a nulla, sono vani in finale, i richiami e i tentativi per un suo ravvedimento messi in atto dalla sua famiglia intera che si preoccupa e si riunisce intorno a lui per dissuaderlo con ogni mezzo: persino la figlia Liza, sensibile e più matura della sua età, in un gioco grottesco di rimbalzi di colpe, rinfacci e accuse che è l’escalation finale arriva a rubargli in un gesto estremo e nascondergli innocentemente le chiavi del furgone ma senza avere l’effetto sortito e sperato.

C’è un profondo senso di ineluttabilità e un velo di tristezza di sottofondo ad avvolgere tutto, nelle incomprensioni e nelle discussioni con la moglie Abbie, paziente e comprensiva che all’inizio lo asseconda, nelle lotte e sfide apertamente violente tra padre e , il ribelle Sebastien, adolescente a rischio di delinquenza minorile, che si sente incompreso perché defraudato delle attenzioni paterne, nelle complicità, nella comprensione e poi delusione da parte della più piccola Liza. E’ un quadro familiare e di crisi coniugale molto verosimile e contemporaneo, dipinto con estrema crudezza e sagacia quello che ne deriva. Avvertiamo già da subito in tutto questo avvicendarsi il senso di costrizione e d’impasse di Richy, del suo non avere né scelta né via di scampo in realtà, come fosse intrappolato con le spalle al muro e in un vicolo cieco, dove la sua è chiaramente una scelta guidata e indotta ad arte dalle circostanze, non realmente libera come gli viene fatto credere.

Film decisamente improntato all’anticonsumismo, è antiglobale, riflessivo e profondo dietro la facciata della storia drammatica: “Qui c’è in ballo il tema profondo del falso e illusorio libero arbitrio che maschera e nasconde subdolamente la perenne condizione esistenziale umana sottostante fatta di schiavitù, dove la schiavitù e la dipendenza tutta moderna è quella dai consumi, sottoforma di veri e propri attacchi voraci e bulimici da click di mouse, avidi ed ingordi, che per essere sostenuti nella loro perversità necessitano di una forza lavoro sempre più grande, dilagante e soprattutto sfruttata: il film è un viaggio-ritratto no-sense nel mondo spietato, cinico che esiste dietro le quinte del capitalismo moderno, fatto di globalizzazione e sfruttamento, con i suoi fantasmi e i suoi pericoli”. Cosa c’è dietro l’imponente e sfolgorante, accattivante facciata dell’Impero ormai consolidato di Amazon, (dapprima E-bay e simili) in testa al settore del e-commerce, all’ombra dei grandi Colossi e Giganti mondiali delle Multinazionali sottostanti? Chi o cosa detiene le fila, tiene in mano i fili invisibili? Ken Loach qui abbastanza palesemente li tira in causa e li pone sul banco degli imputati: cosa si nasconde dietro il cartesiano moderno del “compero ergo sum”, dietro al potere del click compulsivo per acquisti facili, selvaggi e veloci, di beni di qualsiasi genere ma soprattutto di dubbia utilità? Si assiste parallelamente da tempo ad un fenomeno ormai di massa, di tendenza, in forte rilancio sul settore della ristorazione a domicilio: una volta era il tradizionale Takeaway ora si chiama JustEat, Glovo, ecc., la parola d’ordine dell’home food delivery, che con semplici applicazioni di accesso da smartphone e seducenti tocchi di schermata hanno ormai ammaliato la mente e mandato in visibilio i consumatori, monopolizzando le consegne a domicilio. Un’analisi spietata ed arguta della società odierna edonistica dei piaceri immediati istantanei, urgenti, delle gratificazioni impulsive compulsive, ossessive, ai limiti del patologico quella indotta da Amazon in testa, con tanto di sorrisetto ammiccante ed occhiolino malizioso di tanta Psichiatria clinica moderna. La società materialistica dell’usa e getta e dei falsi bisogni indotti ad hoc che per mantenere se stessa, cioè alta la schiavitù dai consumi usa la schiavitù dei lavoratori, veri e propri oggetti di scambio, galoppini (i nostri ciclisti invisibili se non per il cubo giallo caricato sulle spalle!!!) che basano ormai la loro intera giornata su turni h24 massacranti ed estenuanti finendo col vivere per il lavoro, anziché lavorare per vivere, e senza avere possibilità alcuna di scelta né di uscita.

Nella globalizzazione delle economie mondiali ci si deve confrontare e fare i conti purtroppo ed alla fine anche adeguare, alle strategie vincenti delle nuove potenze nascenti come quella asiatica della Cina ormai consolidata, per sopravvivere sul mercato ormai? Possibile che sia l’unica strada percorribile, l’unica direzione fattibile quella che è alla fine anche un ritorno regressivo ad una vera e propria negazione dei diritti umani, anche in un Occidente così evoluto e progredito?

C’è tutto un mondo, una realtà sommersa dietro infatti, fatta di facchinaggio e sfruttamento per pochi soldi a pacco, a consegna: è il “capitale umano” la vera merce di scambio quando l’uomo viene valutato e ha valore solo in funzione ed in base a ciò che rende e fa fruttare al sistema, in base alla sua funzionalità ed utilità nel sistema capitalistico, nella misura in cui come piccolo ingranaggio ne è un portatore di utili e profitti, pena l’eliminazione sociale. Tutto ciò va ben oltre il concetto comune e più superficiale del consumismo e il materialismo impliciti su cui si fonda la società moderna: l’uso sfrenato di beni di consumo e la corsa alla gratificazione immediata come conseguenza rendono anche e non solo l’uomo schiavo, ma anche un pezzo qualsiasi, sostituibile ed interscambiabile di una macchina complessa, di un sistema meccanicistico molto più grande di lui, come facesse parte o fosse egli stesso all’interno di una catena di montaggio e produzione industriale. Si ritorna a parlare di alienazione e depersonalizzazione con grande pace di K. Marx.

Chissà se forse anche questa impennata di tanti disturbi d’ansia, di panico, di angoscia degli ultimi decenni sia strettamente collegata a questo senso di vivere moderno esasperato, parossisitico come criceti sulla ruota?

E’ la solita vecchia storia concettuale del Capitalismo storico che dai tempi che furono ci si presenta ogni volta sotto rinnovate vesti, dalla rivoluzione industriale al colonialismo, alle tratte dei neri e all’imperialismo occidentale, superato ora solo da quello cinese, che ci ripropone sempre la stessa la catena dello sfruttamento alla base della piramide gerarchica. Sono le nuove frontiere della schiavitù nell’era moderna della globalizzazione dei social, dei media, di google e amazon: a ben guardare non c’è poi così tanta differenza con la scena di un ironico Charlie Chaplin operaio impazzito alle prese con il caos della catena di montaggio taylorista nella fabbrica fordista di “Tempi Moderni” girato solo nel lontano 1936 .

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E’ talmente dilagante questo sistema e questa mentalità della produzione industriale, di stampo taylorista su larga scala (dove sono privilegiati i numeri e la serie sulla qualità) che ha invaso e toccato come un virus contagioso ormai anche settori un tempo estranei alla produzione, come quello terziario dei servizi socioassistenziali, della sanità: c’è un rimando sottile nel film ma comunque importante anche se relegato in secondo piano attraverso la figura della moglie, anche all’altro mondo sommerso di lavoratori sfruttati ed impoveriti, senza né diritti né dignità, quello delle assistenze domiciliari e delle strutture, gestite per lo più da scaltre cooperative spregiudicate e approfittatrici. E che dire anche dei cosiddetti lavoratori della partita iva? Che sia per un furgone o per entrare a lavorare presso uno studio professionale o fare una collaborazione, questi autonomi, come ci mostra il protagonista di Sorry We Missed You, su cui vuole giustamente ironizzare Ken Loach, sono in verità fragili perché esposti senza difese e tutele, unicamente allo sfruttamento da parte delle Aziende e Multinazionali interessate solo al tornaconto personale, di comune accordo con tanta politica finanziaria-economica azzardata spregiudicata che ha volutamente scelto di alimentare questa tendenza, causa primaria di tanta precarietà e disoccupazione.

Il “furgone” di Ricky ne è e ne diventa allora l’emblema e paradosso al tempo stesso, il simbolo di rinascita-redenzione-riscatto ma anche di schiavitù, di perdizione se non addirittura di autodistruzione finale, oppure di ravvedimento, in uno scenario prossimo di vera e propria guerra tra poveri, forse e con ogni probabilità innescata e pianificata ad hoc già dall’alto. Tesi complottista o no… il dubbio rimane.

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