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1917 | Il giorno del salvataggio miracoloso e della vittoria della solidarietà umana

una recensione a cura di Simona Tarantino

Il regista acclamato di “American Beauty” e “Revolutionary Road”, che qui indagava e scandagliava con sottile sarcasmo il conformismo perbenista e cinico di una certa società americana del benessere, mettendone in piazza i suoi lati oscuri , le zone d’ombra e di comfort, ritorna e si rimette in gioco con un nuovo film dal titolo già significativo, già anticipatorio “1917“, film che con i precedenti condivide i toni intimi e drammatici dei conflitti esistenziali irrisolti ma con tinte meno assurde, grottesche e paradossali. Si cimenta questa volta su un tema ed un genere per lui ancora del tutto inesplorato, come quello della Grande Guerra del 15-18, proprio alla sua ricorrenza storica da poco passata del centenario, ambientando la narrazione in un’unica simbolica giornata, il 6 aprile 1917, data fatidica, probabilmente decisiva e di svolta per le sorti della guerra, e nella zona franca, quella cosiddetta “Terra di Nessuno” dove furono per lo più concentrati i combattimenti tra le due trincee nemiche avversarie, quelle francese e tedesca. Film di denuncia contro la guerra in generale (ma pensiamo anche alle moderne guerre americane, al Vietnam, alla Corea, all’Iraq, all’Afghanistan, a tutto il bacino del Medioriente, ecc.), non solo storico, ma sociologico e psicologico, denso di grandi significati e rimandi, probabilmente forse anche con l’intento di auspicare risvegli di coscienza: noi banalmente diremo ancora un altro film, l’ennesimo film sulla prima guerra mondiale come tanti ne sono stati girati (anche se in realtà la rappresentazione filmica di questa guerra è stata meno ricorrente rispetto all’altra guerra), ma ci rendiamo quasi subito conto come spettatori che questo è ancora diverso, non è il solito prodotto commerciale, politico o storico, è soprattutto un dramma umano in primis, che pare avere un qualcosa in più, quel valore aggiunto che ce lo rende speciale, quale può essere lo sguardo sull’intimità ed il vissuto interiore di giovani vittime che balza in primo piano e mette sullo fondo i fatti oggettivi della guerra. Non a caso “1917” è stato vincitore del Golden Globe per il miglior film drammatico, dell’ Oscar per la colonna sonora e per la scenografia, dell’Oscar grandemente meritato anche per la fotografia di Roger Deakins. Parlano le immagini delle bombe a pioggia, delle deflagrazioni e delle fiamme, delle trincee, delle pozzanghere putride da attraversare più che le parole od il racconto abbastanza scarno, la storia semplice, che di per sé è poco in confronto alla full immersion, alla condizione di immersività di cui è portatore: è un film-esperienza, un’esperienza multisensoriale e percettiva studiata e proiettata con immagini potentemente suggestive e forti, dirompenti ed emozionali, che ci porta proprio lì al nucleo degli eventi, insieme ai protagonisti, sull’orlo del baratro e dell’abisso nero dove tanta umanità si è affacciata senza tornare più indietro, sul precipizio di quel vissuto di vuoto e solitudine perennemente presenti e rinnovati nel film.

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Dunque Film di forte impatto emozionale ma che vuole essere anche riflessivo e profondo in ultima battuta, sul significato e sulle conseguenze che la Guerra si è portata con sé , su che cosa si è costruito dopo, e che fa porre domande perciò sul modello del l’Europa attuale, sulla nostra situazione politica economica, sugli equilibri sempre più precari e minacciosi come bombe ad orologeria pronti ad esplodere: parrebbe talvolta di sentire aleggiare già nell’aria lo spettro della prima e seconda guerra e lo scenario bellico che si possa immaginare stavolta è a dir poco apocalittico. Viscerale quanto verosimile, intriso di profonda umanità che arriva dritto al cuore, potente perché immediato, il film è tratto e basato sul racconto biografico dello stesso nonno di Sam Mendes – a cui rende omaggio – il protagonista sopravvissuto e scampato al conflitto, che dopo una vita di chiusura e silenzio, finalmente apre i suoi ricordi al nipote regalandoci questo tassello di vita vissuta nelle trincee e sui campi di battaglia, questo scorcio soggettivo sul dramma esistenziale di un’intera generazione falcidiata e sterminata dal conflitto.

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Mendes ci mostra e ci fa rivivere in prima persona l’esperienza della guerra di trincea, quale fu la Grande Guerra, calandoci dentro la sua spietatezza, la sua durezza, la sua crudeltà. Come in un viaggio negli Inferi noi percorriamo insieme al protagonista queste interminabili trincee scavate nella roccia come fossero labirinti e gallerie claustrofobiche senza via di uscita e di scampo, veri e propri gironi danteschi di anime perdute e dannate, facendo riemergere così il vissuto claustrofobico, asfissiante e soffocante, angosciante e disperato di tanti giovani soldati, poco più che ragazzi (generazione 1899): il tutto anche grazie ad una tecnica di riprese particolari messe in atto dalla regia, il cosiddetto“piano sequenza”, carrellate della macchina a seguire o anticipare il movimento del protagonista, a rendere molto più realistiche le scene come noi fossimo dietro o davanti a lui tutto il tempo, calati nello stesso dramma, come in un videogame, una virtual reality. Film dalle atmosfere decadentiste e crepuscolari, anche macabro nella visione insistente su cadaveri e ruderi, con i quali vuole attualizzare quel senso di morte e di distruzione, di pesantezza e lacerazione dell’anima che probabilmente è la connotazione principale dei ricordi del nonno e di tutti gli scampati, lo risulta essere anche per l’intercalare di paesaggi e lande fredde e spettrali, grigie e desolate, dai toni-colori cupi e scuri, pesanti, ma di crudo e forte realismo, (rappresentano l’Europa storica, simbolica della guerra, o l’Europa futura? una sorta di densa premonizione) come nelle riprese con i pezzi dei corpi affioranti in macerazione, resi irriconoscibili nelle acque gelide e nelle terre putrefatte di “confine” tra le trincee nemiche, o come nelle riprese della corsa del protagonista, messaggero di pace, nelle trincee, girate con la tecnica delle scene sequenza, della carrellata a precedere o retrocedere come se stessimo correndo anche noi spettatori in quel tunnel senza fine (già ampiamente anticipata da Kubrick in Orizzonti di Gloria nel 1957) e poi ci trovassimo catapultati di colpo sul campo di battaglia tra le bombe che piovono ed esplodono da ogni direzione e i compagni che cadono e muoiono tutt’intorno a noi. (Game over?). Qui non si pone più l’accento né sui dialoghi né sulla storia, ridotta all’essenziale, non si seguono intrighi o tattiche, storie di strategie, spionaggio, rivendicazioni o sparatorie da film d’azione, qui quel che conta è l’esperienza diretta nostra, di noi catapultati nella realtà, di noi che lo seguiamo nel suo percorso esplorativo, di fuga, nelle esplosioni, nelle trappole, nelle imboscate ed aggressioni che subisce, nella morte del suo amico che è costretto ad abbandonare lì senza tentennamenti e ci commuoviamo per la sua disperazione e solitudine, nel guado del fiume, nell’incendio e tra le macerie, nelle città fantasma martoriate dalla distruzione, nel rifugio sotterraneo nascosto dove ritrova e condivide l’umanità e la tenerezza, spaventati e atterriti come lui dalle sue stesse emozioni. E’ un film che ci regala l’esperienza in prima persona.

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C’è un’unica grande scena di grande impatto visivo, magnifica apoteosi del film verso la quale tutto converge, vista con gli occhi del ragazzo, che qui ci conduce passo dopo passo: è quella dell’attacco finale, partito ma poi sospeso, fatto di queste immagini potenti di bombe che cadono su ondate di uomini come corpi contundenti, proiettili umani lanciati all’assalto, burattini al suono di un fischietto, e lui che facendo lo slalom scampa miracolosamente, evidentemente un ricordo ancora da esorcizzare, ancora molto vivo e rimasto atrocemente impresso nella mente del nonno. Mendes ci consegna un potentissimo squarcio-scorcio lungo un giorno, e ci alza il velo su quella che doveva essere la dura realtà e vita senza pietà né scampo di tanti giovani soldati del 1915-18, proprio attraverso questa corsa disperata, questa staffetta- odissea nella terra di nessuno, dove era impossibile accedere neanche per dare dignitosa sepoltura e salutare i propri compagni caduti, scavalcando o calpestando parti anatomiche, cadaveri decomposti e pozze putrefatte, devastazioni, incendi: rappresentazione nuda e cruda, come fosse un quadro espressionista dell’ecatombe della Grande Guerra, del suo vero volto.

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Questa storia è in sintesi principalmente la messa in atto di un salvataggio coraggioso, a dir poco miracoloso, di un intero battaglione di 1600 uomini da un massacro sicuro (non è un salvataggio più scenografico di “Dunkirk” di Nolan del 2017 dove la time-line è più frammentata, né quello di “Salvate il soldato Ryan”), quando proprio è sul punto di sferrare l’attacco al nemico senza sospettare di essere ingenuamente caduto nel tranello teso dai Tedeschi, quello della finta e simulata ritirata del fronte nemico, astuta e strategica. In questa storia dunque troviamo in realtà rappresentati, a ben pensarci a freddo e non nell’immediato, gli alti valori come veri protagonisti, quelli della fratellanza, della condivisione, della solidarietà tra compagni contro e come antidoti alla crisi di valori morali e civili che contraddistinse proprio quell’Europa di fine secolo, degenerata poi nel conflitto mondiale: ritroviamo l’inedita riscoperta dei legami di sangue e di amicizia fraterna, preziosi semi da portarsi dietro nella degenerazione epocale. La vera forza del film non è anche proprio questa significatività più alta da contrapporre alla crisi esistenziale di valori? Alla fine vincitori a dispetto di tutto in questo racconto non sono forse la pietas, la tenerezza, l’amicizia aldilà delle barriere, delle nazionalità, delle fazioni opposte e delle trincee?

Sgomenta vedere il protagonista qui (ed è emblematico nel film), quasi del tutto solo, compiere la missione, solo ad avere sulle spalle questa grossa responsabilità in questa infinita traversata irta di trabocchetti, oltre che in pericolo per tutto il tempo in questa terra desolata che in verità sappiamo essere stata anche luogo di cameratismi, scambi felici (tabacco, cibo e vettovaglie), gesti d’amicizia, tra i soldati nemici durante le tregue, non solo di morte. Volutamente Mendes fa cominciare al caporale Schofield, il protagonista, la sua missione ed andare in avanscoperta in coppia – tutto ciò è significativo – ma poi lo fa procedere da solo, quando il compagno caporale Blake, il doppio muore, per mano dello stesso pilota nemico tedesco da quest’ultimo appena salvato ma che per tutta risposta e come ringraziamento invece lo uccide: scena anche questa che può dare molto da discutere, provocatoria per il sottile ed implicito messaggio di diffidenza sempre presente, come un virus invisibile, e la conseguente impossibilità di accettare una mano tesa in aiuto e in segno di fratellanza da parte dell’altro, provocazione sul clima inevitabile, ineluttabile di odio-ostilità, di rancori sotterranei (fomentato anche e soprattutto da tanta propaganda subdola e capillare) e dunque di disumanizzazione dell’Altro, del Nemico. Ma Quale è il vero Nemico?

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Contro ogni nostra realistica previsione e a dispetto di tanta solitudine e vuoto, di tanta desolazione, disperazione e ostilità incontrati lungo il percorso, il ragazzo riesce comunque vittorioso ad arrivare incolume e salvo non solo a destinazione, ma anche a portare a termine l’incarico e ordine infausto di sospendere l’attacco, correndo disperatamente contro il tempo e gli ostacoli, i pericoli, a suo rischio di vita, attraversando quella zona surreale e indefinita di confine, terra dei morti rimasti lì intrappolati condannati a putrefare perché rimasti insepolti, quasi fosse simbolicamente un Ade, e lui nel fare la staffetta fosse come una sorta di Caronte traghettatore di anime dalla vita alla morte e viceversa.

E’ così che Mendes pare puntare tutto sulla figura di una sorta di Antieroe piuttosto che dell’Eroe, per lo meno non quello che ha i connotati del classico combattente valoroso pluri-premiato e insignito di trofei e medaglie, bensì che ha i tratti opposti di un uomo comune e normale, un ragazzo “prescelto” per questo, sacrificabile, poco più che 18enne, sensibile e di indole mite, all’inizio spaventato e dubbioso ma poi rivelatosi invece generoso e temerario, dotato di una grande resilienza e forza interiore insospettate ai suoi stessi occhi e ai nostri nell’affrontare le dure prove, un giovane che si ritrova coinvolto suo malgrado, per non disubbidire agli ordini dei gerarchi superiori ma in realtà qui più per lealtà, amicizia fraterna verso il compagno, nonché solidarietà, in una missione suicida più grande di lui e “si sacrifica” (o viene sacrificato) in nome di alti ideali.

In nome di quali ideali e per quale gloria…?

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Le fattezze, il carattere, tutto di lui è comune e poco significante, scelto forse per questa sua anonimità (così come l’attore per impersonare la parte, un eccellente George Mackay), per la mancanza di valore implicitamente assegnata alla sua Vita dai comandi militari… E qui scatta immediata la riflessione su come tanti giovani soldati furono usati come cavie, merce ed oggetti sacrificali, semplici pedine nelle mani degli strateghi e dei politici. E si rimanda ad un altro tema portante, il vero protagonista in fondo, insieme all’orrore che ne consegue, è il Sacrificio vissuto invano (qui tuttavia ribaltato per una giusta causa), in nome di quali valori, illusori e costruiti ad hoc con campagne motivazionali seducenti, persuasive e manipolatorie, come quello che un’intera generazione di giovani ingenuamente ha fatto, votata in realtà solo al massacro, scelta e strumentalizzata per adempiere allo scopo attraverso gli slanci e gli ardori tipici giovanili, ma in realtà plagiata, raggirata, illusa ed ignara della propria sorte.

Soldati lanciati all’attacco sotto le raffiche e mitragliate del fuoco nemico, incontro a morte sicura, come impazziti, buttati alla rinfusa e mandati allo sbaraglio, alla cieca, kamikaze senza alcuna possibilità di scampo, armati di soli elmetti e baionette, senza alcuna preparazione e addestramento adeguato, senza avere scelta di disubbidire, contestare o di sottrarsi ad ordini talvolta scriteriati, scellerati, incoscienti e crudeli, azzardati e presi alla leggera, da parte di comandanti degli alti ordini gerarchici militari, pena l’esecuzione immediata, la fucilazione seduta stante o pene molto dure: così è stata la mattanza e la carneficina umana più grande della storia moderna. Potremo citare proprio qui a proposito come esemplari le figure dei due ufficiali con ruoli chiave nella vicenda, contrapposti ed agli antipodi tra loro: ad un’estremità si trova il generale Erinmore (Colin Firth) il buono, che pare mostrarsi più umano ed umile nel cedere alla pietà della presa di coscienza e dell’ammissione onesta del pericolo incombente sui soldati, tanto da arrivare a prendere la decisione di volerli salvare, pur sacrificando la vita di due suoi uomini, ma qui per un alto scopo; all’altro capo il colonnello Mackenzie (Benedict Cumberbatch) il cattivo, che pare indifferente e impassibile in un primo momento, animato solo da ferrea disciplina e rigorosa ubbidienza alle disposizioni ricevute di portare a termine l’attacco a qualsiasi prezzo, pur con un alto costo di perdite umane, ma che poi si ricrede e si piega a volontà più sagge e prudenti. Non è un film apertamente Antimilitarista e polemico come Kubrick fece in Orizzonti di Gloria, ma si schiera comunque sulla stessa linea di denuncia e di testimonianza autentica della cruda e spietata realtà di quella guerra, del suo lato oscuro e irrisolto, ben poco glorioso per tanto tempo insabbiato.

E tutto ciò non può che portare all’amara riflessione sull’impunibilità e sulla caccia alle vere responsabilità di questa immane tragedia: chissà mai se fu fatta luce e furono istituiti dei Tribunali Militari speciali per fare giustizia – così come avvenne decenni dopo a Norimberga per l’altro grande conflitto – non solo sui disertori ma sugli Alti Comandi, sulla dubbiezza, l’avventatezza e la fallacia di tali ordini e strategie, non fosse anche solo per l’applicazione ferrea e spietata di discipline e punizioni marziali esemplari quanto efferate come fucilazioni e dura prigionia (emblematico era l’ordine di sparare addosso o alle spalle sui soldati che non saltavano subito fuori dalla trincea per buttarsi nella mischia al suono del fischietto, da parte di un ordine speciale di carabinieri istituito apposta) al minimo segno d’insubordinazione o di rifiuto di andare incontro a morte certa (già cit. “Paths of GloryKubrick). E’ abbastanza risaputo quanti soldati ammutinassero, disertassero, fuggissero all’estero, si automutilassero e ferissero, ricorressero a qualsiasi espediente, addirittura fingessero di essere diventati pazzi (ma tanti lo divennero davvero e tornavano dal fronte impazziti e/o con amnesie totali tanto da far aprire un numero imprecisato di ospedali psichiatrici nel territorio limitrofo, con commissioni mediche persino per valutare la veridicità dei casi di disturbi mentali) pur di non andare a combattere in prima linea e non dover rifiutare e quindi incorrere nella punizione. Altro che sacrificio volontario in nome e per l’alto valore della Patria, della Gloria eterna.

Viene da chiedersi riguardo una probabile attualità e contemporaneità del film non tanto per il tema della guerra di per sé trattato, quanto per questioni cruciali che solleva, di contingenza attuale, come il concetto di “Europa Unita”, ora come allora dilaniata invece e divisa da odio, da populismi, nazionalismi vari, sovranismi e fanatismi, divisionismi, costruita sulle paludi-sabbie mobili su cui Mendes ci fa simbolicamente camminare, e su quei cumuli di cadaveri marciti e putrefatti, decomposti (gli alti ideali irrisori e infranti di una gioventù brutalizzata). Quali le premesse ed il prezzo pagato in vite umane per l’Europa unita di oggi? Via via gli stessi scenari pericolosi che ritornano e si affacciano alla mente mettendo a rischio le conquiste fatte, ma forse non così solide lungo gli ultimi cent’anni di storia? Una Comunità Europea reggente e poggiante su falsi e vuoti ideali, fallimenti di ideologie di potere che immancabilmente si ripresentano come fondamenta-pilastri fragili e vacillanti pronti a minacciare di cadere giù come un castello di carte esposto alla prima violenta scossa o raffica di vento?… I temi attuali scottanti dell’immigrazione e dell’invasione tutta europea dei profughi di guerra e rifugiati politici, delle politiche finanziarie economiche azzardate e dei dissesti, delle crisi, dell’instabilità politica, delle alleanze pericolose e della continua intromissione ed ingerenza americana (da sempre politica espansionistica ed imperialistica ormai ad un punto di rottura) nel bacino del Medioriente e del NordAfrica, ora con l’Asia, la consolidata e minacciosa avanzata della potenza economica della Cina, o in ultimo come sta attualmente accadendo, lo spettro di psicosi di massa da pandemie mondiali, possono realmente disarcionare e infrangere tutto il sogno dell’Europa unita? Senza addentrarsi in discussioni fuori da questo contesto basterebbe dare un’occhiata alla scacchiera degli equilibri mondiali ed europei che hanno accelerato il decorso della Brexit, pur ancora molto discutibile, che sancisce e sigla la definitiva uscita e dissociazione dall’Europa unita del Regno anglosassone per salvaguardarsi come potenza mondiale, la sua fuoriuscita dalla instabilità politica economica e civile europea, e dunque dal suo crollo, dal suo preannunciato fallimento, confermando così la vittoria di un clima (ed il ritorno di tempi passati) di paura, terrore, d’incertezza, di discriminazione e odio che genera e fomenta altro odio e discriminazione in una spirale senza fine, innescando circoli viziosi che riattualizzano soltanto gli scenari di inizio novecento. Quanto c’è di più attuale.

Ripetutamente e volutamente Mendes ci propone immagini forti senza dubbio, e ci scuote nella coscienza, costringendoci a delle inquietanti e scomode domande-verità sulla cecità, l’indifferenza e la comodità-convenienza dell’amnesia generale collettiva, soprattutto delle nuove generazioni, quasi a volerci far fare i conti con noi stessi, farci ricordare da dove arriviamo e dove stiamo andando, obbligandoci a confrontare con questi scenari desolati, tetri, deserti e ostili, se non putrefatti e marci, anticipandoci già in associazione le visioni dei campi di sterminio successivi, se non un futuro possibile catastrofico.

Quali le conseguenze ed i possibili scenari apocalittici futuri di una società civile fondata e costruita sull’odio, sull’intolleranza e sui nazionalismi, sul massacro e spargimento di sangue come fu quello del 15-18 ? La seconda guerra ne fu solo l’automatica conseguenza, l’epilogo-coronamento inevitabile. E Quale società potrà mai dirsi civile ed umana se basata su simili premesse?

In tutto questo orrore tuttavia pare brillare una piccola luce o esile fiammella che chiederebbe di essere vista e alimentata: ricordiamo che il soldato Schofield ha anche trovato e incontrato alcuni piccoli, esili aiuti e incontri alleati disseminati lungo il suo cammino, oltre ai nemici e i pericoli da cui guardarsi. “In fondo forse allora è stata proprio questa la vera vittoria più grande, il cordone-corridoio solidale, e solo in apparenza di casualità, che gli ha permesso di arrivare e l’ha portato a destinazione rafforzato, sano e salvo, lucido, ma soprattutto dotato ancora di grande forza di volontà e determinato fino in fondo a compiere ciò in cui credeva, a scegliere per il bene supremo, superiore.”

E’ la celebrazione anche della nuova vita, la tenerezza (il neonato), dell’amore (la fanciulla) nonostante la guerra, in contrapposizione alla desertificazione e ai cadaveri della terra di nessuno (la morte), alla brutalità e ostilità nemica (il pilota tedesco). Un film che è davvero un grande Omaggio a quanti come lui ignari si sono ritrovati di colpo in mezzo ad un Disegno loro superiore quale la costruzione dell’Europa geopolitica attuale, e a quanti soprattutto hanno trovato nonostante tutto la forza ed il coraggio di comportarsi in mezzo alle avversità nella maniera più giusta, dignitosa ed esemplare pur senza volerlo, semplicemente perchè erano rimasti comunque in ballo e credevano in qualcosa di più profondo.

BABELICA APS
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