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ELVIS | Well, don’t you know I’m caught in a trap? (I can’t walk out)

Regia: Baz Luhrmann

Anno: 2022

Produzione: Stati Uniti d’America, Australia

una recensione a cura di Elena Pacca

Al netto di un Tom Hanks/Colonnello Tom Parker, inizialmente un po’ troppo caricaturale (a tratti pareva Mr. Creosote dei Monty Python) e prigioniero della sua stessa goffaggine posturale, Elvis colpisce e restituisce a chi, per età, cultura e gusti musicali non l’ha conosciuto né tantomeno amato, una figura di spessore, tormentata e sincera, in grado di far vibrare le corde dell’emozione, con la giusta dose di visceralità e sentimento.

Baz Luhrmann, re del salto carpiato del montaggio fantasmagorico e delle trovate sceniche ultra originali, elude il rischio di ridicolizzare un personaggio, che – soprattutto da un certo punto in poi – è sempre stato sopra le righe, indossando abiti che hanno cavalcato il kitsch, diventando il tratto superficiale delle migliaia di imitatori, che ne scopiazzavano le sembianze senza avere un grammo del suo carisma. Tiene a freno la regia, calibrando una miscela perfetta tra piani sfalsati, split screen e passaggi tra il protagonismo assoluto e l’assoggettazione al suo manager/scopritore. Un uomo assai controverso, dal passato oscuro, con il pregio assoluto di aver saputo cogliere immediatamente il talento, ma, al contempo, di averne fortemente indirizzato la carriera, reprimendo certi slanci, badando prevalentemente al proprio tornaconto, spremendo sino allo stremo un uomo precursore del suo tempo. Magari non consapevolmente rivoluzionario, ma in grado di sovvertire il perbenismo della stragrande maggioranza della popolazione bianca americana, ammantata di puritanesimo e razzismo.

Colui che canta come un nero, che si mischia ai neri, che vorrebbe cantare un gospel, che si muove in modo lascivo e impertinente, che infiamma le folle, è adorato dalle donne, è un’esplosione di energia spregiudicata e liberatoria. E’ colui che deve esser fatto rientrare nei ranghi, che deve convincere le famiglie ad acquistare sempre più elettrodomestici, che deve celebrare la liturgia del Natale come festa delle famiglie dalle sane tradizioni. Un ossimoro vivente in cui devono convivere il suscitare pensieri impuri e magnificare il più vieto conservatorismo. Una bomba destinata a scoppiare.

Elvis img 1 elena

E nel mentre la storia passa accanto a Elvis con le sue tragedie e il crollo delle speranze, la fine delle illusioni. L’assassinio dei Kennedy, prima John poi Bob, quella del pastore Martin Luther King, le rivolte, il concerto di Altamont con le vittime fra il pubblico durante l’esibizione dei Rolling Stones.

Luhrmann traccia una parabola che, come in Barry Lyndon, segue l’ascesa e la caduta di un idolo benvoluto e venerato da molti, ma non da tutti. Qualcuno ha detto che tanto più si arriva in alto tanto più dolorosamente e fatalmente si cade. E così è. Stritolato dal suo stesso successo, dall’ossessione di perpetrare un rito tra il mistico e il pagano, quale salire ancora e ancora su quel palco che gli garantiva un pubblico osannante e disponibile, Elvis prigioniero sì del Colonnello Tom Parker, ma fondamentalmente di sé stesso, diventerà, con la sua prematura (ma prevedibile) scomparsa un’icona mondiale, un mito. Tanto da far addirittura dubitare qualcuno della sua morte per annoverarlo nel club dei falsi defunti, quelli che sono riuniti su un isola che non c’è per essere lasciati in pace e continuare la loro vita come nulla fosse.

E poi come quando si parteggia spudoratamente per il protagonista di una storia, vorremmo urlare a Elvis di salire su quegli aerei, di non aver paura, di girare il mondo, quel mondo che lo sta aspettando. Ma non è così che funziona. La favola si inceppa. Il disco è una puntina che salta sul medesimo solco graffiato e torna su sé stessa. E una giostra grandissima, bellissima, ma dalla quale non potrà più scendere. Elvis rimarrà intrappolato fra le mille luci di Las Vegas sino a quell’ultima esibizione che è pura autentica magia.

E se la magia funziona, oltre alla potenza della musica, è anche e soprattutto merito di Austin Butler che non gigioneggia, non cerca di strafare e non diventa appunto uno dei tanti “sosia” o presunti tali di cui è ancora pieno il mondo dalla sua morte in poi, ma si immedesima e si muove non come fosse Elvis ma appropriandosi di Elvis, catturandone movenze, sguardi e spacconeria quando occorre. E fa correre brividi lungo la schiena anche a chi l’ha considerato – perché quello ha visto nel suo epilogo – “un vecchio ciccione vestito da schifo”.

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