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JOKER | O il film dei quesiti

una recensione a cura di Tiziana Garneri

Tralasciando i confronti con le versioni di Burton, Nolan o i riferimenti a “Suicide Squad”, il film di Phillips credo vada considerato come opera a sé stante.
La trama è apparentemente semplice.
Un malato di mente, Arthur Fleck, consapevole di esserlo, inizialmente innocuo.
Col desiderio di portare il sorriso e fare il clown o l’attore, si trasforma in un killer spietato.
Sono doverosi i complimenti all’ottimo Phoenix, che impersona appunto Arthur, emaciato, piegato nella postura, con lo sguardo triste, ove la risata compulsiva da cui è affetto, pare più un rantolo, un pianto strozzato.

Joker img1 tiziana

I quesiti che il film pone allo spettatore sono molteplici.

Sino a che punto un malato di mente in acuzie partorisce pensieri omicidi e qua è il limite che lo porta a metterli in atto trasformandosi in un killer joker?

Il regista gioca astutamente su questo aspetto, confondendo le carte, spiazzando lo spettatore con elementi contrastanti. 
Realtà vissuta o immaginata?
In particolare, la scena dell’omicidio della madre in ospedale pare reale ma poco dopo è disconfermata da un frame successivo (quando Arthur va a casa della ragazza che frequenta, si contraddice il fatto che la madre sia in ospedale).

Stessa operazione registica quando quasi all’inizio del film viene inquadrato un orologio a muro che segna le 11 e 10 mentre il nostro protagonista è a colloquio con una psicologa.
Lo stesso orologio e la stessa inquadratura verrà usata alla fine del film con ARTHUR/ JOKER che parla con la psicologa in manicomio, il che può indurre a pensare che tutto sia avvenuto nella sua mente e che da lì non si sia mai mosso.
Ma ancora una volta Phillips spariglia le carte.
Il film si conclude con il nostro protagonista che si allontana ripreso di spalle attraverso un corridoio, lasciando impronte di sangue mentre cammina: che abbia ucciso la psicologa, alla cui banale domanda ha risposto “tanto non capiresti”? Quasi prendendo per il naso lo spettatore?
E ancora: la malattia mentale esiste, dato indiscutibile.
Può essere esacerbata da reiterate frustrazioni, da intollerabili abbandoni…
Il nostro personaggio ha all’inizio un rapporto protettivo con la madre.
A un certo punto il protagonista sembra scoprire che la donna non è la sua vera madre, ma una psicolabile che lo ha adottato e che da bambino è stato oggetto di abusi e sevizie.
E chi è veramente suo padre? 
Quale aderenza alla realtà ha la versione dei fatti fornita da sua madre?
E possono questi eventi dare una chiave di lettura alla furia omicida reale o immaginaria che sta per scatenarsi?

E per finire: ARTHUR JOKER veste involontariamente (sempre sul crinale tra realtà e immaginazione) i panni dell’eroe che si ribella al sistema, in una sorta di catarsi.
La folla di persone che con la maschera da clown come lui invadono le strade di Gotham City, New York, ricordando il movimento “Occupy Wall Street” che manifestava mascherato contro il potere delle banche e della finanza.

Dobbiamo dunque considerare “Joker” un film con una valenza politico/sociale?
Chi è allora ARTHUR JOKER? 
Una vittima, uno spietato killer, un visionario?
Un elemento di un film pericoloso, come sostiene Michael Moore, perché può influenzare i giovani all’uso delle armi?

L’autore pone domande, ma volutamente ed abilmente lascia all’interpretazione dello spettatore le possibili risposte.
E questa è la vera forza del film.
Lo spettatore può identificarsi con un povero malato o prendere distanza dalla sua psicosi, mai certo di capire fino in fondo.
In sintesi: un bel film, ben congegnato, ove nulla è scontato e tutto è possibile.

Joker img2 tiziana

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