una recensione a cura di Umberto Mosca
Nel 2000 esce un film diretto da Clint Eastwood, forse considerato un po’ minore nella sua filmografia, intitolato “Space Cowboys“, in cui Tommy Lee Jones salva il mondo dalla catastrofe nucleare portando un vecchio satellite fuori controllo a schiantarsi sulla Luna. “Ad Astra“, scritto e diretto da James Gray, autore cinematografico di melodrammi ossessionato dal tema dell’identità collegato all’educazione e ai legami familiari (“Little Odessa” e “Two Lovers“, “I padroni della notte” e “The Immigrant“), dal punto di vista narrativo si può considerare come una sorta di spin-off del film di Clint, dove la fantascienza è un ambiente narrativo per parlare dei valori.
Il cinema e il cinema di fantascienza praticamente nascono insieme, anche se è soltanto nel 1926 che viene coniata la specifica definizione di “scienze fiction”. Il 1926 è l’anno in cui si sta girando “Metropolis“, il film dove una rappresentazione cinematografica del futuro diventa una potente metafora sul destino dell’Uomo e sul mondo che verrà, ponendo a fondamento del film di fantascienza quel “bisogno di risposte” che è più un’esigenza filosofica che una curiosità tecnologica.
In un momento in cui il viaggio nello spazio ritorna ad assumere principalmente un valore turistico e di entertainment, quel significato di esperienza esotica e straordinaria, di “attrazione” e di avventura “fuori dal mondo” che rivestiva proprio nei film pionieristici di Méliès (vedi Elon Musk che vende i biglietti per la Luna), “Ad Astra” è un’opera che suggerisce uno sguardo sull’esplorazione spaziale che, a dispetto della trama, non è centrifugo, ma centripeto. “Ad Astra” è un film in cui quel formidabile “schermo riflettente” che è la visiera del casco dell’astronauta è lo strumento attraverso cui lo sguardo del terrestre non viene soltanto portato “fuori”, ma soprattutto “all’interno” del sé.
Del film di fantascienza, “Ad Astra” coglie sia l’aspetto filosofico che l’aspetto tecnologico, ma agli spettatori interessa riflettere su come questi due aspetti vengono sviluppati ed, eventualmente, integrati.
In genere l’aspetto tecnologico è quello che in un film di fantascienza consente allo spettatore di viaggiare e di accedere a quella dimensione dello sguardo che già nei film di Méliès ci faceva accedere a visioni originali, inedite, meravigliose, permettendoci di spostare le “frontiere dello sguardo”. In questo caso ci sono società spaziali come la NASA, la Jet Propulsion Laboratory e la SpaceX, coinvolte nella produzione, a garantire la verosimiglianza scientifica nella rappresentazione di queste frontiere.
Non si può dire che il film di James Gray non assolva a questo aspetto primario di “visionarietà”: basti pensare alla sequenza della riparazione della stazione orbitante o alla sequenza dell’attacco pirata sulle lande lunari. E citando questi due ambienti così differenti, l’atmosfera terrestre e la superficie lunare, già poniamo la questione essenziale che ci accompagna per l’intera esperienza di questo film. Si tratta di un problema essenzialmente estetico, legato al colore e valorizzato al massimo dal lavoro con la fotografia di Hoyte von Hoytema, abituale collaboratore degli ultimi film di Christopher Nolan, che di viaggi per aria se ne intende non poco. Però, a differenza di “Interstellar“, in “Ad Astra” non c’è un solo altro pianeta dove l’orizzonte sia a colori. La storia scritta da Gray sceglie precisamente di non uscire dal sistema solare, ponendo gli anelli intorno a Nettuno come le colonne d’Ercole di un universo conosciuto che le grandi narrazioni contemporanee da tempo hanno spostato in altre galassie o nell’attraversamento andata e ritorno dei buchi neri. Questa scelta narrativa porta in maniera inevitabile a restringere la forma e la dimensione dell’universo, ad accorciare le distanze spaziali come nella caduta iniziale e finale del protagonista, a farci percepire il carattere finito della condizione umana, a ricordarci come, fino a prova contraria, l’unico mondo a colori (in cui possiamo respirare visioni di futuro a pieni polmoni) sia ancora soltanto l’atmosfera terrestre. E tutto il resto è al massimo un ologramma liquido proiettato sulla pareri di una delle tante basi spaziali del viaggio.
E così la chiave estetica dominante e coerente che domina il film -visionaria per sottrazione, fatta di assenza di colore, di vuoto, polvere inafferrabile, rarefazione e lentezza- ci porta a impattare direttamente con l’aspetto filosofico del film. Spostando radicalmente lo sguardo dello spettatore nella misura in cui lo riporta a una dimensione finita dell’universo, Gray raccoglie la sfida di trasformare lo spazio in un luogo metafisico dove l’uomo si trova più vicino alla sua condizione più profonda: sia in senso psicanalitico (la voce pensante che ci porta dall’inizio del film all’origine della propria formazione personale), sia in senso antropologico (l’incontro con gli scimmioni che segna un rivoltarsi su se stesso di quell’impulso alla scoperta ormai trasformatosi in un percorso di autodistruzione), sia in senso culturale (come in “Cuore di tenebra“, anche qui c’è un Kurtz che porta alle estreme conseguenze il disegno egemonico del proprio modello di civiltà e che per questo deve essere eliminato).
Poi, ai fanatici del verosimile ad oltranza, possiamo domandare come possano accettare senza colpo ferire che un astronauta si sposti attraverso galassie e buchi neri e non siano disposti a spostare la propria soglia di incredulità di fronte al fatto che nel futuro un uomo possa sopravvivere per una ventina d’anni nello spazio… Se poi ci venisse anche la tentazione di discutere sulla scarsa empatia del protagonista, potremmo ricordarci delle informazioni mediche sul suo battito cardiaco che vengono diffuse all’inizio del film e che ne fanno un personaggio davvero speciale.
Tanto che nella seconda parte del film saremmo stati disposti a seguirlo per qualche scena in più, accettando fino in fondo la sfida dell’odissea della psiche, questa moderna creatura che, come nel romanzo ottocentesco di Mary Shelley, insegue il suo Prometeo per chiedergli di liberarlo dalla condizione tragica di non poter più ritornare indietro. A metà sospesa, per ragioni di produzione, tra cinema di genere e cinema d’autore, quella di James “Grey” è una poetica che, con molta umiltà, riporta la civiltà alla dimensione della Persona.