ASSOCIAZIONE DI PROMOZIONE SOCIALE

AFTER LOVE | Nella mia fine è il mio principio

Regia: Aleem Khan

Anno: 2020

Produzione: Regno Unito, Francia

una recensione a cura di Elena Pacca

Un appartamento, dialoghi di routine, il fischio prolungato del bollitore. Sipario.
Si chiude, dopo una manciata di minuti il primo atto di questa storia.
Volendo scomodare Mark Fisher (oddio quanto ci manca e chissà cosa direbbe di questi giorni bui) Aleem Khan ci precipita con un’entrata a gamba tesa nel weird, quella sensazione che nella troppa normalità ci sia qualcosa di strano, qualcosa che non va ma non riusciamo a capire bene cosa sia. Quell’ingrediente che sentiamo che c’è perché altera in qualche modo il sapore di un piatto noto, ma non individuiamo quale sia e più ci pensiamo e più quell’ingrediente polarizza la nostra attenzione. Qui la nostra digressione si interrompe subitaneamente e noi passiamo oltre, mantenendo quel retrogusto che poi ci farà pensare come dotati di un registro di quoziente intellettivo oltre la media “ecco, doveva esserci qualcosa sotto”. E quel qualcosa è la scoperta della doppia vita di suo marito da parte di Fatima/Mary, moglie e poi vedova di Ahmed, i protagonisti della scena iniziale, per quanto di lui si intraveda un’ombra distante lungo le infilate degli interni di casa.

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Da una realtà chiusa in uno spazio cupo a uno spazio aperto, luminoso.
Le bianche scogliere di Dover, iconico punto di sguardo verso la Francia.
Pochi chilometri che diventano una distanza siderale per Mary/Fatima, vedova dalle forme generose che, in un altrettanto grande atto di generosità verso il marito, ha abbracciato la fede islamica.

Un messaggio fissato sulla segreteria telefonica del cellulare è l’ultimo aggancio a quella memoria coniugale venuta a mancare.
Un altro messaggio su un altro cellulare sarà il sipario strappato sul secondo atto. La crepa che si insinuerà per far franare certezze sedimentate.
Un’altra casa, un’altra vita, un’altra donna, la segaligna Genevieve e Solomon, il figlio adolescente avuto da Ahmed.
Ahmed, che in un gioco di sponde si interfacciava da oltre un ventennio con mirabile costanza come in una partita di Pong tra Francia e Inghilterra.
La decisione di Fatima di conoscere “l’altra” e poi un casuale misunderstanding la introduce nella casa in cui deve essere ultimato un trasloco, come “donna delle pulizie”.
Sarà la paura di non farcela a sostenere quel ruolo che la avvicina oltre misura a quella che ritiene essere a tutti gli effetti, la nemica, la rivale, colei che ha sottratto porzioni affettive a lei destinate e che ha persino cresciuto un figlio con il quale empatizzerà da subito nonostante le scontrosità adolescenziali, che la faranno immergere a lungo nelle acque marine, in una sorta di prolungato battesimo che la inizierà a nuova vita.
Saranno le camicie di lui, annusate, sottratte e poi ritrovate, saranno le confidenze, sarà la vita a irrompere in un confronto di culture che si gioca sulla contrapposizione (ma senza cadere in un forzoso confronto su chi sia meglio di cosa) – donna fedele/donna libera, casa ordinata/caos dispersivo, religione/laicità che poi si ricompone in quello sguardo verso un futuro che da ora in poi appartiene a chi rimane, dove il dopo è il presente. Dopo l’amore c’è ancora altro amore, in virtù di un lutto che è sì mancanza ma che da assenza si fa presenza di qualcos’altro.
E il coraggio di vivere quello allora ora c’è.

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