ASSOCIAZIONE DI PROMOZIONE SOCIALE

AFTERSUN | Fino all’intimità dei ricordi

Regia: Charlotte Wells

Anno: 2022

Produzione: Irlanda

una recensione a cura di Deborah Gallo

Intimo. [Dal latino intĭmus. In, dentro.] È esattamente all’interno, nella parte più recondita e profonda dell’animo umano, quella più fragile, che sgomenta e, a tratti, disorienta, che ci conduce Charlotte Wells per mezzo di Aftersun.

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Durante la visione della pellicola assistiamo al ricordo dell’ultima vacanza — in un albergo della Turchia — con il padre, durante il periodo dell’adolescenza, di Sophie, ora donna adulta. Attraverso la memoria e aiutata da una vecchia videocassetta registrata durante quell’estate, la protagonista si addentra in una spirale di ricordi lieti e malinconici. La Wells è abile a spalancarci le porte della mente di Sophie, ci mette nell’immediato in condizione di sentirci parte di quel vortice di memorie del passato, di quella lontana reminiscenza. È chiaro fin da subito che Aftersun ci farà male, che scuoterà la condizione emotiva di ognuno di noi, ci trapasserà fino a raggiungere la nostra parte più sensibile, e che per quanto doloroso non faremo opposizione. Asseconderemo quella dolce e pacata tristezza, con lo stato d’animo malinconico tipico di chi prova a ricordare chi si è amato e si ama, chi non c’è più. È struggente mettere a fuoco, sequenza dopo sequenza, come ci si attacchi ai ricordi, come si tenti di sviscerarli, di elaborarli, di pensarli tanto intensamente da credere di riuscire a toccarli con mano fino a sentirli sotto la pelle delle dita.

Aftersun è a tutti gli effetti un film sul ricordo, o meglio sull’atto di ricordare. L’immagine della memoria dell’ultimo abbraccio tra Sophie e suo padre fa male, è straziante. Due corpi stretti, intrecciati perfettamente tra loro, che non hanno possibilità né intenzione di svincolarsi. Gli occhi di Sophie semichiusi, anzi strizzati, come a voler immagazzinare meglio quella felicità, come a volerla contenere tutta, per sempre, nella speranza di non dimenticarla mai. Nell’inquadratura perfettamente studiata di ogni fermo immagine, nei colori placidi e mai sgargianti, nei lunghi e indispensabili silenzi che si alternano alle parole — e che alterano la nostra percezione del tempo, contribuendo alla creazione di uno spazio temporale quasi sospeso — si cela una vigorosa umanità; un senso di comprensione, di appartenenza, di indulgenza. Ogni gesto è una palese dichiarazione d’amore di un padre verso la figlia, e viceversa. Una manifestazione d’affetto pura, priva di fronzoli, mai superflua. Ogni sequenza segue il suo corso quasi con torpore, ma non rendendo mai lento l’andamento del film, anzi facendo sì che la comunicazione tra Sophie e Calum risulti vivida, veritiera; sempre permeata da una spontanea naturalezza, priva di sofisticherie.

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È intima, verosimile, sembra reale. È, probabilmente, la verosimiglianza l’aspetto emblematico di Aftersun, la ragione per quale questo film ci scuote, ci coinvolge, ci fa sentir parte di un ricordo condiviso a tal punto da emozionarci e ricordarci che ricordare è inevitabile, ed è un atto inevitabilmente meraviglioso ed infausto al tempo stesso.

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