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AIR – LA STORIA DEL GRANDE SALTO | Un esempio del sogno americano

Titolo originale: Air

Regia: Ben Affleck

Anno: 2023

Produzione: Stati Uniti d’America

una recensione a cura di Chiara Lepschy e Giuseppe Minerva

Quanto è difficile riconoscere il talento prima che sia conclamato davanti a tutti? E quanto sembra semplice e quasi ovvio, dopo? Questo è, senza dubbio, uno dei principali temi presenti in Air – La storia del grande salto per la regia di Ben Affleck. Individuare un talento precoce e scommettere su di esso richiede – infatti – un affinato intuito e una grande competenza ma anche, inevitabilmente, una discreta dose di fortuna. Non è un caso, quindi, che Sonny Vaccaro (Matt Damon) sia descritto come un ottimo talent scout e come uno scommettitore.

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Il film propone il tema in chiave positiva celebrando quella che fu una grande intuizione della Nike, che permise alla società di passare rapidamente da un ruolo marginale ad uno di primo piano nel mondo del basket, dominato – all’epoca – dai marchi Converse e Adidas. C’è l’esaltazione, di conseguenza, del sogno americano fondato sulle capacità del singolo, siano esse le doti atletiche e la grande consapevolezza di sé del giovane Michael Jordan o l’intuito di Sonny Vaccaro e, in modo simmetrico, della madre di Michael (una Viola Davis la cui sola presenza in scena contribuisce a catalizzare l’attenzione dello spettatore). Nonostante una certa vena trionfalistica del film, emergono chiaramente alcuni aspetti di critica del sistema economico e sociale americano, dovuta alla consolidata fede democratico-progressista del regista, dei produttori e degli attori: la più forte (e sempre valida) è sicuramente quella rivolta ad un capitalismo finanziario che tende a valutare ogni iniziativa solo in termini di fiducia del mercato, scoraggiando scelte più originali e coraggiose, come quella perseguita con convinzione e accanimento da Vaccaro. Ed emerge in modo altrettanto evidente la nota di biasimo allo spirito degli Stati Uniti reaganiani degli anni ’80: Rob Strasser (Jason Bateman) afferma di aver cantato a squarciagola e pieno di orgoglio patriottico Born in the USA di Bruce Springsteen, prima di soffermarsi un attimo ad ascoltarne (e comprenderne) il testo, rendendosi conto in ritardo della forte critica espressa dall’autore. È inoltre accennata – anche se con una certa leggerezza – l’incompiutezza del processo d’integrazione degli afroamericani, attraverso la considerazione che il jogging non è certo un’attività per neri, che rischierebbero di essere scambiati per ladri che scappano e inseguiti, di conseguenza, dalla polizia.

Il tono della critica è – però – un po’ troppo di superficie, poiché una diversa e più forte caratterizzazione dello stesso avrebbe potuto stridere con lo spirito del film. In particolare, è presentato in modo eccessivamente positivo Phil Knight – interpretato anche con una certa autoironia da Ben Affleck – che diventa un personaggio sicuramente migliore di quanto non lo sia stato nella vita reale, dove il suo nome è legato (in particolare grazie all’intervista di Michael Moore nel documentario The Big One) alle disastrose condizioni di lavoro delle fabbriche indonesiane, in cui venivano prodotte le scarpe Nike sfruttando il lavoro di ragazzi e adolescenti.

In conclusione, un film, che sottolinea – ancora una volta – come la realizzazione del sogno americano (in questo caso di Michael Jordan, della Nike e di molti dei protagonisti della vicenda, compresi Rob Strasser e Howard White) porti con sé tutte le contraddizioni di un mondo incentrato sul successo e su un’autocelebrazione spesso fastidiosa e incapace di render conto di ciò accade, invece, ad una parte non trascurabile della popolazione americana.

Originale, infine, la scelta di non inquadrare mai il volto (e quasi tutto il resto, a dire il vero) del giovane Michael Jordan, che conferisce un’aura quasi mitica al (futuro) grande campione, in linea con la celebrazione che ne fa Sonny nel suo ispirato discorso finale.

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