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ASTEROID CITY | Sulla narrativa atomica di Wes Anderson

Regia: Wes Anderson
Anno: 2023
Produzione: Stati Uniti d’America

una recensione a cura di Alessandro Cellamare

Dopo gli ultimi due lavori per il grande schermo di Wes Anderson, The French Dispatch of the Liberty, Kansas Evening Sun e Asteroid City, è irresistibile fare il punto sulla piega che il cinema del regista di Houston sta prendendo, o almeno tentarne un’interpretazione.

Del fronte visivo e immaginifico è quasi scontato parlare, e parlarne così bene da non riuscire persino a trovare parole esaustive a descriverne la perfezione al limite del divino: i primi quindici minuti di Asteroid City appaiono come idealità platoniche dinanzi alle quali la realtà vera risulta solo un’insipida Ombra. Wes Anderson, nei panni di un demiurgo, sembra mostrarci l’origine metafisica del Tutto, e tanto si percepisce non solo nell’ammirazione delle rigorose geometrie e proporzioni, ma di tutte quelle architetture cromatiche, espressive e poetiche che vanno ben oltre la pura applicazione di rapporti logici e matematici. Siamo dalle parti dello shock da overdose di crack.
Se la maniacalità estetica non è più oggetto di riflessione, se non nella constatazione di un nuovo limite forse mai raggiunto finora al cinema, dalla stessa maniacalità estetica è possibile partire per analizzare l’ipertrofia narrativa che pare stia contaminando i recenti lavori di Anderson. Se sul fronte dell’immagine la cura del microdettaglio moltiplicata per milioni di essi non dimentica la costruzione complessiva, risultando in inquadrature frattaliche complesse ma fruibili anche a un livello più alto e immediato, sul fronte dello storytelling questa ossessività sembra generare micromondi di difficile reciproca integrazione. Come in una sorta di iperbole altmaniana, le pellicole corali di Anderson si stanno trasformando nella somma di miriadi di monadi narrative talmente perfette, sintetiche – e allo stesso tempo dense di significati e significanti -, che non solo richiedono allo spettatore un’attenzione estremamente alta su rapide sequenze di pochi secondi o minuti, ma che appaiono tra di esse poco interfunzionali, quasi fossero creature narcisiste che non hanno poi così voglia di collaborare.
Ci troviamo forse di fronte a una nuova forma narrativa di più difficile fruizione? Possibile. E se così non fosse? Il timore di perdere l’Anderson più “diretto” di Grand Budapest Hotel ha del traumatico, ma quando poi ci si lascia andare alla visione del più classico La meravigliosa storia di Henry Sugar su Netflix le paure sono scongiurate.
Sì. Almeno per un po’.

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