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AVATAR – LA VIA DELL’ACQUA | Siamo una famiglia

Titolo originale: Avatar: The Way of Water

Regia: James Cameron

Anno: 2022

Produzione: Stati Uniti d’America

una recensione a cura di Chiara Lepschy e Giuseppe Minerva

A tredici anni di distanza da Avatar, il film che detiene il record d’incassi della storia del cinema con quasi tre miliardi di dollari al botteghino, giunge nelle sale Avatar – La via dell’acqua di James Cameron.

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Sono passati oltre dieci anni dalle vicende che hanno portato il caporale Jake Sully (Sam Worthington) a diventare un Na’vi e a sposare Neytiri (Zoe Saldana). A far parte della famiglia si sono aggiunti i tre figli naturali (Neteyam, Lo’ak e Tuk), la figlia adottiva Kiri (Sigourney Weaver) – inspiegabilmente concepita dall’avatar della dottoressa Augustine – e un giovane umano (Miles Socorro detto Spider) rimasto su Pandora da neonato dopo l’espulsione dei mercenari al soldo della compagnia che estraeva dal pianeta il prezioso minerale unobtainium.

La vita scorre serena secondo le leggi di Pandora quando la comparsa di una luce nel cielo notturno fa capire a Sully che gli umani stanno tornando e questa volta in forze. Scopo del nuovo sbarco non è soltanto lo sfruttamento delle risorse di Pandora ma anche, e soprattutto, la preparazione di una campagna di conquista del pianeta, con l’obiettivo di trasferirvi l’umanità da una Terra ormai morente. Ma c’è una seconda, e più personale, motivazione in ciò che sta per accadere: su Pandora è in arrivo anche l’avatar del colonnello Miles Quaritch (Stephen Lang), morto durante il precedente conflitto ma la cui personalità digitalizzata è stata caricata nella memoria del suo doppio al fine di creare un super soldato che metta insieme le caratteristiche dei guerrieri Na’vi e dei Marines terrestri.

Miles ha come principale obiettivo la vendetta e, quindi, l’eliminazione di Sully. Ciò porterà quest’ultimo ad abbandonare la foresta con la propria famiglia, nel tentativo di salvare gli Omaticaya dalla rabbia di Quaritch e costruire una nuova vita sulle isole dei Metkayina, una popolazione adattata a vivere a stretto contatto con l’acqua. Da qui si innesca l’intreccio del film, tra le difficoltà di integrazione con i locali e il conflitto con gli uomini venuti dal cielo.

Il principale pregio della nuova opera di Cameron è sicuramente la potenza visiva delle immagini, esaltata dal passaggio delle scene naturali e di guerra dal mondo aereo del precedente episodio al mondo marino tanto amato dal regista. Oltre a ciò, l’impiego di immagini 3D ha dato vita e continuità ad un’epica che parla di esseri umani e famiglia, di speranze e valori, infondendo ulteriore corpo al messaggio filosofico alla base dei due film. Resta interessante – infatti – il plot che se riprende, da un lato, le tematiche del primo Avatar – un ecologismo e una spiritualità vicini a quelli dei nativi americani – si apre, dall’altro lato, al tema delle difficoltà di integrazione di chi abbandona un ambiente noto per uno nuovo, declinate sia dal punto di vista degli adulti, sia dal punto di vista dei più giovani, dove va a mescolarsi con i tipici problemi di crescita e ricerca della propria strada.

Articolato è il gioco dei rimandi ai precedenti film del regista: si va da Aliens – Scontro finale (1986) – richiamato all’ennesima potenza dallo sbarco dei mezzi da combattimento dalla nave madre – e Titanic (1991) – le cui memorabili immagini dell’inabissamento sono evocate in modo esplicito dall’hovercraft da guerra che affonda in verticale – al meno fortunato The Abyss (1989), in cui le rischiosissime (al tempo) riprese subacquee la fecero da padrone.

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Ma le citazioni non riguardano solo il cinema – e i film di Cameron nella fattispecie – ma anche la letteratura, quella statunitense in particolare. Non è difficile riconoscere nella tragica caccia alla femmina di Tulkun (e al suo cucciolo) la caccia alle balene descritta da Herman Melville nel suo Moby Dick o la balena (e trasposta in modo memorabile da John Huston nel film Moby Dick del 1956). Pur adattati ad un contesto caratterizzato da una tecnologia molto più avanzata, gli strumenti e la tecnica di caccia, nonché la finalità economica sono ancora quelli magistralmente descritti da Melville, pur nella differenza delle visioni filosofiche: non si tratta più del mondo naturale misterioso e terrifico dello scrittore americano ma di una natura potente e benigna della quale il Tulkun di Pandora, vittima incolpevole, fa parte.

Meno esplicito e forse inconscio, ma altrettanto suggestivo, è il parallelo fra la famiglia Sully, costretta a fuggire poiché inseguita dal colonnello Quaritch, e la famiglia Joad del romanzo Furore di John Steinbeck, che emigra in cerca di lavoro. In ambedue i casi, unione e compattezza costituiscono i punti di forza con cui i due nuclei famigliari affrontano la nuova condizione: e se i secondi affermano più volte “La famiglia deve restare unita”, i primi rispondono – per tutto il film – con “I Sully restano uniti”.

In conclusione, tre ore di spettacolo e di immagini potenti ed evocative, capaci di trasportare lo spettatore in un mondo alieno ma umano come pochi altri, completo e coerente.

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