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BARBIE | Bambola simbolo del capitalismo o icona femminista?

Regia: Greta Gerwig
Anno: 2023
Produzione: Stati Uniti d’America, Regno Unito

una recensione a cura di Chiara Lepschy e Giuseppe Minerva
Barbie img 1 beppe e chiara

C’è stato un tempo per odiare Barbie e tutto ciò che ha significato e c’è un tempo per vederla, forse, sotto una nuova luce.

Nel 1999 Germaine Greer, icona del femminismo e autrice de “The Female Eunuch” (1970), pubblica “The Whole Woman” in cui si scaglia contro Barbie poiché portatrice di un modello fisico idealizzato da un punto di vista maschile e, di conseguenza, irraggiungibile nella pratica: “Con il suo corpo non funzionale, che vanta un seno privo di capezzoli più del doppio della circonferenza della sua vita minuta, gambe lunghe il doppio del busto e piedi così piccoli da non poterci stare in piedi, è improbabile che Barbie sia stata molto efficace nei suoi ruoli di carriera come astronauta, veterinario o hostess“. Ai suoi occhi, Barbie è un’icona del capitalismo che tramite l’insoddisfazione spinge le donne a spendere in prodotti di bellezza quel denaro che potrebbe essere impiegato per acquistare libri, computer o biciclette. Altro, insomma.

Anche Greta Gerwig ha un approccio femminista alla narrazione, come dimostrano i suoi film precedenti – da “Lady Bird” (2017) a “Piccole Donne” (2019) – e in questo nuovo lavoro ha sicuramente dialogato con le idee e la visione della Greer ma è andata oltre, poiché i tempi sono cambiati.

Al di là dell’approccio adulto e cerebrale che vede nella Barbie il lungo elenco di difetti citati, resta incontestabile che generazioni di bambine hanno giocato ricevendo da e proiettando su di lei le loro fantasie. Il film parte proprio da questo assunto, cioè dall’idea – invero originale – che Barbie possa essere paradossalmente vista (anche) come un’icona femminista e un simbolo di liberazione, in quanto è il primo giocattolo che non propone alla bambine il solito ruolo di accudimento ma permette loro di proiettarsi nell’universo degli adulti, che certo è il luogo del consumismo estremo ma anche un mondo di desideri e aspettative e, forse, di possibilità di realizzazione. A sottolineare questa visione è la scena iniziale, in cui la regista cita in modo simpatico ma certamente didascalico Stanley Kubrick, paragonando di fatto la bambola al monolite che muta in 2001: Odissea nello spazio (1968) il corso dell’umanità.

Barbie img 2 beppe e chiara

Da qui parte la storia vera e propria, che contrappone il mondo ideale e stucchevole di Barbieland – retto dalle innumerevoli versioni di Barbie – al mondo reale, nel quale Barbie Stereotipo (Margot Robbie) deve recarsi dopo che in lei sono nati pensieri umani (legati all’umore negativo della sua “controparte” reale) che hanno generato umane imperfezioni, anche fisiche. Scoprirà con tristezza che la realtà è ben diversa da Barbieland e che l’emancipazione e l’affermazione femminile, che le Barbie ritengono di aver promosso, ha ancora molta strada da fare. Insieme a lei, anche Ken (un bravissimo Ryan Gosling) vivrà la medesima esperienza, scoprendo la funzione del “patriarcato” che, una volta tornato a casa, destabilizzerà irrimediabilmente Barbieland, portando al dominio di maschi coatti e volgari e a una quasi volontaria sottomissione delle altre Barbie, abilmente condizionate dai troppi Ken. Ma il ritorno di Barbie Stereotipo rimetterà le cose a posto, consentendo anche ai Ken – tutto sommato infelici del “comando” – di iniziare un percorso di crescita e di acquisizione di un’identità indipendente dalle Barbie.

In altre parole, Greta Gerwig tratteggia un mondo in cui le istanze femministe sono – come noto – solo parzialmente realizzate e in cui il patriarcato sopravvive in sottofondo, il più bieco consumismo è comunque imperante e l’armonica affermazione di sé e la ricerca delle propria identità restano processi difficili e faticosi da realizzare e riguardano, si noti, donne e uomini allo stesso tempo. Il bel monologo di Gloria (America Ferrera) sulla difficoltà di essere donna e rispondere alle aspettative personali e agli stereotipi imposti dalla società, ricorda non poco il monologo di Laura Dern avvocato in Storia di un Matrimonio (2019) di Noah Baumbach, compagno della Gerwig e co-sceneggiatore di Barbie.

In conclusione, bellissime le immagini e la fotografia scintillante di Rodrigo Prieto e interessante la trama, anche se il pizzico di furbizia insito – molto probabilmente – nella lettura di una Barbie potenzialmente femminista, consente alla regista di mettere in buona luce anche la Mattel, che è tra i finanziatori del film. In ciò ricorda non poco l’operazione di Air – La storia del grande salto (2023) di Ben Affleck, in cui la Nike non era messa così in cattiva luce, malgrado le polemiche legate allo sfruttamento di manodopera minorile in estremo oriente. Nonostante ciò, la Gerwig sembra fare un omaggio sincero a una bambola certamente contraddittoria ma che ha fatto giocare milioni di bambine anche in modi non convenzionali e “strambi”, dipingendone il volto, tagliandone i capelli e divaricandone a piacimento tutti gli arti.

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