Regia: Greta Gerwig
Anno: 2023
Produzione: Stati Uniti d’America, Regno Unito
una recensione a cura di Elena Pacca
La scena iniziale (omaggio a Kubrick?!? che mi immagino rivoltarsi nella tomba pervaso da un attacco di ultraviolenza senza manco scomodare le note di Ludwig Van), è nata, ancor prima di diventarlo, come un meme da reiterare in un loop ossessivo. Guizzo creativo? Azzardo? Paraculaggine? Sicuramente un mix, che funziona in virtù del risultato a cui aspira e vale anche per chi è ignaro del riferimento autoriale.
Greta Gerwig spalleggiata dal buon Baumbach – il marito regista famoso prima di lei che in questo caso da buon Ken-Noah si accomoda un bel passo dietro a sua moglie – si butta a capofitto in Barbieland ficcandosi in quel ricchissimo piatto che, dalla Mattel in primis, le viene offerto.
E l’effetto dell’operazione è un po’ quello del giullare di corte: tollerato e incoraggiato dal sistema, proprio (anche quando dice cose “scomode” o prende in giro certi vizi) perché funzionale al sistema. Nulla di male basta non ritenere Gerwig e nel traslato Barbie Stereotipo una pasionaria in grado di sobillare le folle e dotarle di una nuova coscienza politica capace di risvegliarsi e di abbattere il patriarcato, l’ingiustizia, le discriminazioni di ogni tipo e sconfiggere il capitalismo neoliberista dall’interno. Siamo un po’ al femminismo for dummies, al livello zero del manualetto della suffragetta moderna, aggiornata su un modello che probabilmente né lo si detesta, né lo si ama oltremisura, in quanto modello non è, nonostante tutti gli upgrade, sociali, professionali, di genere etc. etc effettuati da Barbie dalla sua nascita ad oggi. Il tutto oltremodo depotenziato da una rappresentazione del mondo maschile come coacervo di grulli ottusi senz’arte né parte, portatori di una mascolinità innocua che surfa sull’onda dell’essere in questo contesto un elemento accessorio e quindi niente affatto irrinunciabile (d’altronde a giocare alle Barbie sono le bambine, mica i maschi). Quindi non in grado, fisiologicamente parlando, di alzare il livello del contendere e il valore di una chiamata alle armi per battere il “nemico”. E dunque quale conquista può dirsi significativa se il contraltare, l’avversario, non è all’altezza? Insomma San Giorgio lo ricordiamo per aver sconfitto il Drago, non la pulce d’acqua.
Il profluvio di rosa è meravigliosamente carino, le battute azzeccate muovono più di un sorriso, Margot Robbie è deliziosamente intrinsecamente Barbie e Ryan Gosling si brutalizza nella sua plasticosa faccia che sa toccare mirabili vette di altissima e raggiante inespressività. Se a Barbieland ci si annoia nonostante le feste, i barbecue, i cocktail bordo piscina e le spiagge dove splende sempre il sole, la vita nel mondo reale è più complicata, perché assai più complicati sono i rapporti fra esseri umani. A uno statico Eden artificiale versione Black Mirror – San Junipero (cui peraltro il film è debitore anche per l’epilogo) in cui vivere un imperituro, felice e luminoso giorno della marmotta, Barbie accusando qualche scompenso psicofisico – si affacciano pensieri di morte e i talloni anziché svettare tracollano a terra – sceglierà un mondo imperfetto dove c’è parecchio da fare. E imparerà (purtroppo) che non bastano le Birkenstock per attraversarlo comodamente ma, piuttosto, per raggiungere certe posizioni e certi ruoli dovrà risollevare i talloni e infilarsi nuovamente i tacchi per avviare la scalata al potere. Quale che sia.
Greta Gerwig – già meno convincente del solito in Piccole Donne – nonostante tutti i record abbattuti come birilli in questa duplice veste di regista e co-sceneggiatrice è attentissima al particolare e forse per questo perde un po’ di vista il quadro generale. A mio parere è preferibile nella versione un po’ goffa, tenera e sgarrupata di Frances Ha, prototipo di quella Barbie a cui noi bambine ingrate abbiamo tagliuzzato e bruciato i capelli, facendole compiere sfacciate spaccate, e qui rappresentata isolata, anche logisticamente, reietta e stramba in lotta per trovare un suo (anche piccolo) posto nel mondo. Quale che sia. Una Gerwig che, ai tempi, avrebbe esitato persino a indossare le Birkenstock originali e avrebbe optato per una sottomarca tarocca e cheap.
Una cosa il film la dice chiara e mi prendo il merito di averlo intuito già nei miei trascorsi di bambina dello scorso millennio: a giocare alle Barbie dopo un po’ ci si annoia a morte. Talmente tanto che si annoiano le stesse Barbie (life in plastic is not so fantastic) che, a un certo punto – ed è da lì che prende il là il film – vacillano nell’overpinking di quello Shangri-La che abitano. Oltre al fatto che i maschi, cioè tutti i Ken, controparte accomunante di quell’universo manicheo, come già detto, sono degli stolidi cretini azzerbinati, pupazzoni spettatori delle vite di Barbie, corpi senza attributi che quindi, anche fuor di metafora, manco servono per fornire un po’ di sano godimento e che quando “importano” il patriarcato nel loro mondo, lo fanno nel modo più idiota possibile e tempo cinque minuti e si fanno riabbindolare dal genere femminile Barbiecentrico, giocoforza coeso per riportare lo status quo.
A meno dell’apertura di un franchise Mattel con sequel e spin off, questo film record che sicuramente ha intercettato al di là delle pur rosee aspettative la materia oscura, liquida e mutante del sentire comune ottenendo risultati insperati ai più, produttori, registi e detentori dei marchi compresi, presumibilmente non verrà annoverato fra i capisaldi della storia del cinema, nemmeno da parte di chi – il cinema – lo considera morto da tempo. Rimarrà una cosa carina, segno di un momento di particolarmente propizia congiuntura astrale, che ha attraversato la nostra epoca, di cui ci si ricorderà come quando si apre un vecchio baule in cantina dove, in un giorno imprecisato abbiamo riposto un giocattolo o la nostra Barbie del cuore, senza nemmeno sapere bene perché.