associazione di promozione sociale

BEAU HA PAURA | Boy Afraid

Titolo originale: Beau is Afraid

Regia: Ari Aster

Anno: 2023

Produzione: Stati Uniti d’America, Canada, Finlandia

una recensione a cura di Elena Pacca

Where do his intentions lay?
Or does he even have any?

[The Smiths]

È l’inizio di una nuova vita. Che anziché essere desiderosa di venire al mondo e di gettarsi a capofitto in quell’avventura ancora imperscrutabile, sembra voler indugiare. Restio al mettersi alla pari con gli altri bambini che urlano il proprio vitalismo con un pianto sonoro, Beau, sembra inerte, passano dei secondi in cui seguiamo in soggettiva, con la visibilità propria di un neonato, i contorni confusi e indefiniti di quel mondo nuovo che compare dietro la cortina della vista dopo aver vissuto al confortevole buio del ventre materno. La paura di essere uscito da lì, espulso suo malgrado, sarà la costante dominante di Beau, della sua esistenza e del film che ci accingiamo a vedere.

Beau ha paura img 1 elena

Il titolo è una dichiarazione programmatica, una diagnosi che si traduce in una seduta psicanalitica in cui non sappiamo se tutto ciò che accade sia vero o sia una proiezione onirica o mentale del protagonista, seduto (si fa per dire) su quell’ipotetico divano che è lo schermo.

Quattro atti, quattro situazioni, quattro stili diversi attraversati da un Joaquin Phoenix annientato dalle sue paure, sino a renderlo quasi pietrificato dalle stesse, incapace di articolare verbo, ma dinamicamente in movimento verso un qualcosa, quale che sia davvero la sua intenzione e chi pare muovere i fili di quel suo agire.

Beau ha paura img 2 elena

Ari Aster mette in scena un altro rapporto familiare problematico per non dire altro, su cui grava come in Hereditary, la condanna di un lascito congenito. A differenza di Midsommar, un esercizio di stile, a mio parere con molte pecche nonostante il quasi unanime consenso della critica, in cui la presunta sofferenza di Dani Ardor, la protagonista, è affermata come un postulato ex post, la sofferenza di Beau è palpabile, sentiamo sulla pelle, il disagio, lo smarrimento, l’impotenza. E’ un mostro a più teste che lo scaraventa nel gorgo delle sue paure che si sovrappongono e si susseguono senza soluzione di continuità. Non è empatia perché Ari Aster è un mostro di freddezza, di algore sensoriale che riveste il tutto di una pellicola trasparente che ci permette di vedere lasciandoci, al contempo, fuori e quello stare fuori, fa altrettanto male, pone lo spettatore in una situazione di disagio, di disturbante sensazione di passività.

Ari Aster, come detto, si prende il tempo di un racconto senza fine in quattro atti, quattro scenari distinti in cui viene catapultato Beau – sempre con l’andata a nero per un trauma subito – a partire dall’appartamento/prigione che poi verrà invaso da sconosciuti (come in Madre! di Aronofsky), la casa famiglia adottiva e disfunzionale di chi l’ha raccolto e salvato, il bosco fiabesco teatro dell’incontro col padre e infine la scenografica ed escheriana villa materna che riuscirà a raggiungere in incolpevole ritardo come se per tutta la durata del film ciò che inizialmente si proclama come urgenza – “Voglio solo tornare a casa” – sia trattenuta da una forza invisibile di procrastinazione perpetua per non arrivare mai, come in una rappresentazione esistenziale in potenza del paradosso di Achille e la tartaruga.

Beau ha paura img 3 elena

Una sorta di Via Crucis che fa attraversare a Beau le stazioni del suo divenire e del suo avvicinarsi alla fine, dove si ricongiungerà alla madre, intesa come la soverchiante Maman/Ragno di Louise Bourgeois che trama e tesse la sua ragnatela che invischia Beau sin dalla nascita e lo trattiene come per inghiottirlo ogni giorno dentro di sé, divorandolo per divorarne i sogni, gli affetti, le possibilità di vivere una vita autonoma, riempiendo quell’ipotesi di futuro di paure vere o indotte, creando una fittissima rete di terrore fobico attorno a sé.

Tra caldi e mielati cromatismi alla Jack Vettriano, slapstick da film muto, stop motion, inserti da materiale in eccedenza dal girato del Mago di Oz, il prendere forma di una realtà parallela alla Truman Show e tanti altri spunti e riferimenti, il film è un gulliveriano viaggio che gira per accumulo, che sembra non stancarsi mai, talvolta perde colpi, talvolta si fa didascalico, prelude a un ultimo capitolo, intuitivamente previsto e poi chiude con uno spiazzante e teatrale finale che si prolunga come uno stillicidio – e l’acqua in senso letterale è una presenza costante della pellicola – di un qualcosa che potrebbe ancora accadere e che invece …
Invece ci alziamo e usciamo dalla sala, esattamente come quel pubblico sugli spalti dell’ultima scena che ha atteso qualcosa e che invece …
Che invece, a differenza nostra, non può più sentire, forse, quel pianto rinnovato.

Meet again?
(Meet again?)
Go and believe it
I’ve got to go

[Supertramp]

Beau ha paura img 4 elena
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