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BELFAST | Per chi è rimasto, per chi è partito, per chi si è perso

Regia: Kenneth Branagh

Anno: 2021

Produzione: Regno Unito

una recensione a cura di Alessandro Sapelli

Con Belfast Kenneth Branagh ci riporta nella sua città nativa a fine anni ’60, nel momento in cui esplosero i cosiddetti “Troubles”, conflitti tra protestanti e cattolici durati quasi trent’anni. Emblematica, in tal senso, la sequenza di apertura: la via in cui abita il piccolo Buddy è piena di bambini gioiosi e festanti, ma la spensieratezza del giovane protagonista viene presto spazzata via dall’entrata in scena di individui incappucciati che mettono a ferro e fuoco il quartiere e le case delle famiglie cattoliche presenti a colpi di molotov, bastoni ed auto incendiate. La camera ruota a 360° attorno al bambino, mostrandoci al ràlenti come il suo sguardo cambi di fronte ad un evento come questo: perplessità, stupore, tensione, terrore.

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E’ inevitabilmente e fortemente autobiografica, la penultima opera del regista nord-irlandese, che al tempo dell’esplosione dei primi disordini aveva esattamente l’età di Buddy.
Nonostante la premessa iniziale, l’intenzione di Branagh non è propriamente quella di analizzare il conflitto civile o di evidenziarne le motivazioni politiche nascoste dietro quelle di facciata. Il focus piuttosto è centrato sulla vita di una famiglia della working class irlandese, costretta come tante a decidere cosa fare di fronte all’assurdità di una situazione di quel tipo, eternamente combattuta tra il partire o il restare.

Fotografata in un bianco e nero elegante, interrotto solo da piccoli sprazzi di colore (visioni cinematografiche e rappresentazioni teatrali, per Buddy le uniche vie di fuga dalla realtà), la storia si concentra principalmente su scene familiari di vita quotidiana, spesso adottando un approccio furbescamente convenzionale che penalizza un po’ il risultato finale. Il quadro che emerge dall’insieme di queste situazioni è quello di un microcosmo fatto di legami di sangue e di relazioni sociali che ha come ambientazione la via in cui vivono Buddy e la sua famiglia. La tensione derivante dai tumulti rimane sempre sotto traccia, sullo sfondo, e rappresenta l’elemento di minaccia esterna che contribuisce a compattare ulteriormente il piccolo nucleo familiare all’interno di una comunità che inizia a sfaldarsi.

E’ infatti dei legami che Branagh vuole parlarci. Della forza dei legami con il proprio paese d’origine e con la propria famiglia, di quanto siano inscindibili e rappresentino un’eredità che l’uomo porta con sé per tutta la sua vita. Un concetto caro alla popolazione irlandese, da sempre costretta a varcare oceani o anche soltanto il canale di San Giorgio per approdare nell’odiata Inghilterra in cerca di maggiore fortuna. Un tema ben evidenziato dal dialogo in ospedale tra il ragazzino e suo nonno (Ciaràn Hinds), una delle figure più amabili del film insieme a quella di Judi Dench. Sono proprio i due nonni ad infondere un’educazione sentimentale e degli affetti al giovane Buddy e a restituire calore ad una pellicola dall’eccellente confezione (nota di merito anche per la colonna sonora di Van Morrison) ma forse realizzata con un approccio sin troppo razionale e che strizza l’occhio in maniera evidente ai membri dell’Academy.

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