ASSOCIAZIONE DI PROMOZIONE SOCIALE

BONES AND ALL | O dell’irriducibile umanità

Regia: Luca Guadagnino

Anno: 2022

Produzione: Italia, Stati Uniti d’America, Regno Unito

una recensione a cura di Chiara Lepschy e Giuseppe Minerva

Prima di tutto è importante osservare come Luca Guadagnino costruisca in Bones and All un mondo perfettamente coerente, certo misterioso nel dipanarsi della vicenda ma – in un certo qual senso – limpido e chiaro. Misterioso, poiché non sono spiegate (in quanto non funzionali al tema del film) le origini del cannibalismo che caratterizza una parte dell’umanità. E limpido e chiaro, perché il tutto emerge in modo quasi naturalistico, inaggirabile e intrinsecamente dotato della già citata (e inattaccabile) coerenza. E tutto ciò, anche se il regista lo espone in modo repentino – e inizialmente incomprensibile se non addirittura osceno – con il morso ferino di Maren (Taylor Russell) al dito della sfortunata amica nella cui casa era stata invitata per una festa.

Da qui prende avvio una precipitosa fuga (in realtà iniziata dal padre fin dalla più tenera età di Maren) alla ricerca di un altro mondo possibile e dell’accettazione di sé, verso i quali la giovane compirà i primi fondamentali passi incontrando Sully (Mark Rylance) – prima – e Lee (Timothée Chalamet) – poi – ambedue cannibali.

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Il primo le darà consapevolezza e le insegnerà a riconoscere a grande distanza i propri simili, mentre il secondo – un grintoso giovane ormai esperto della vita randagia che la sua condizione comporta – rappresenterà il primo amore e un porto sicuro in un mondo per lei nuovo e finalmente comprensibile. Maren e Lee affronteranno insieme il viaggio attraverso gli stati del Midwest per raggiungere il luogo di nascita della madre della ragazza, allontanatasi dalla famiglia quando la figlia era ancora bambina.

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Guadagnino non racconta, quindi, una storia di mostri. Tutt’altro. E per evitare questo rischio rende la condizione dei due giovani protagonisti tanto estrema quanto “naturale”: ambedue discendono da cannibali – il padre violento di Lee e la madre di Maren – quasi a configurare una (ovvia) inevitabilità genetica. E genetiche – e quindi naturali – sono sia l’indomabile spinta a consumare carne umana, sia la capacità di fiutare a distanza – nel vero senso della parola – la presenza di altri simili.

Ma, soprattutto, Bones and All è la narrazione – fragile e umana – del confronto di ciascuno di noi con il proprio essere più intimo – in questo caso estremo – e della difficoltà di accettarlo. Maren rivendica con forza il proprio voler scegliere diversamente, come – in fondo – fece la madre abbandonando la famiglia per rinchiudersi in un ospedale psichiatrico, ma non sarà possibile poiché la propria essenza non è, per forza di cose, contrastabile. E accoglierla fa parte del proprio (loro e nostro) percorso. E tutto ciò nel contesto di un’esistenza tragica, in cui i personaggi anelano ad una vita normale nonostante una sconcertante natura (ma lo spettatore non può non riconoscersi in questo e, quindi, solidarizzare con loro): Maren, Lee e Sully – ognuno a suo modo – cercano infatti una vita “normale”. Ne è un esempio quasi commovente proprio Sully, che nel rovesciare su Maren la propria delusione per la sua fuga (vissuta come un abbandono) ricorda e rivendica – disperato – di aver “mangiato” davanti a lei e con lei, massimo atto di intimità per un cannibale.

Ciononostante, l’opera non è né un film del “terrore”, né tantomeno un film su serial killer psicopatici, ma piuttosto una storia d’amore in condizioni di difficoltà estrema e, soprattutto, un classico road movie – ambientato nei primi anni ’80 dello scorso secolo – in cui vengono attraversati, e debitamente indicati con mastodontica sigla in sovrimpressione, molti stati americani alla ricerca della madre della ragazza. Un’evidente metafora del desiderio giovanile – ma non solo giovanile – di trovare un proprio posto nel mondo e dell’anelito alla bellezza fuori e dentro di noi.

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Bella la fotografia di Arseni Khachaturan, che esalta senza eccessi i panorami naturali e antropizzati che i due giovani incontrano durante il viaggio dalla Virginia, al Maryland fino al Nebraska. E davvero bravi gli attori, dai protagonisti Taylor Russell e Timothée Chalamet ai non protagonisti Mark Rylance – straordinario come sempre, con la sua aria mite e al contempo quasi mistica –, Michael Stuhlbarg (Jake, il vagabondo) e Chloë Sevigny (Janelle, madre di Maren).

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