ASSOCIAZIONE DI PROMOZIONE SOCIALE

CRIMES OF THE FUTURE | Cinema come Arte

Regia: David Cronenberg

Anno: 2022

Produzione: Francia, Grecia, Canada, Regno Unito

una recensione a cura di Umberto Mosca

Se Crimes of the Future, il secondo lungometraggio di David Cronenberg del 1970, metteva in scena la società umana devastata dalle patologie derivate dall’eccessivo uso dei cosmetici, dove la “hybris” era ancora un fattore decisamente esterno, nel suo secondo Crimes of the Future, nel 2022, la mostruosità è ormai da decenni nel suo cinema qualcosa che ha a che fare con la parte interna dell’Uomo, che rimanda all’antropologia biologica. Dove invece il principale agente di evoluzione/mutazione è costituito dall’alimentazione, dagli effetti inesorabili e devastanti che essa produce all’interno di un organismo umano.

Del resto, è da sempre una caratteristica originale del cinema di Cronenberg rovesciare il punto di vista sulla “paura”, che nei suoi film non proviene dall’esterno, ma è un fattore collegato alle trasformazioni subite da organismi mutati e malati (vedi in quest’ultima opera la figura-chiave dell’esoscheletro di ossa e cartilagine che avvolge il protagonista e lo aiuta a digerire, come se si trattasse di un guanto rivoltato).

In tal senso, Cronenberg risponde comunque a una delle mission primarie del cinema sin dalle sue origini, che è quella di costruire una rappresentazione dell’impossibile a vedersi, di quella dimensione che è accessibile soltanto attraverso una messa in scena del “non visibile”. Strano a dirsi, tuttavia, che un suo film riesca ancora a “perturbare” così profondamente, nell’epoca dei canali YouTube dedicati agli interventi chirurgici, riuscendo a centrare l’obiettivo non così facile di farsi scartare da Netflix per la distribuzione. Prima ancora che un’inquietante e sofferta “calata” nella civiltà del futuro, Crimes of the Future è dunque un’occasione teorica per riflettere sulla natura delle immagini, sul fatto che figure come le interiora umane hanno un impatto diverso a seconda dell’estetica con cui vengono costruite e del contenitore/contesto in cui vengono comunicate. Se sono veicolate attraverso la nitidezza della fotografia digitale, in un canale di divulgazione scientifica, si connotano nell’accezione del progresso scientifico e nella celebrazione della scienza. Se, diversamente, ricadono sotto la luce incerta e malata della visione artistica, vengono espressi dalla sensuale sensorialità tattile di “Crash” o di “eXistenZ”, scatenano una potenza perturbativa che è tanto più intensa quanto più è scarso il realismo della loro plastica artificiosità. Perché David Cronenberg ancora una volta ci parla del valore sovversivo dell’Arte, dal suo incarnarsi visceralmente nelle cose della Realtà, ma senza mai limitarsi semplicemente a imitarle, bensì trasfigurandole in qualcosa di più opaco e frammentario, complesso e assai faticoso da sostenere, catturabile più con l’intuizione che non attraverso la ragione.

Ancora una volta il cineasta canadese, sulla traccia dello storico dell’arte Aby Warburg, ci spiega come stare davanti all’immagine significa allo stesso tempo rimettere il sapere in discussione e rimetterlo in gioco. E che non bisogna avere paura di non sapere più, nel momento in cui l’immagine ci spoglia delle nostre certezze, né di sapere di più, nel momento in cui lo spettatore deve fare i conti con lo “svestimento” di cui è appena stato oggetto, comprenderlo in qualcosa di più vasto che concerne la dimensione antropologica, storica o politica delle immagini.

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