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DAHMER – MOSTRO: LA STORIA DI JEFFREY DAHMER | Se la vittima è lo spettatore

Titolo originale: Dahmer – Monster: The Jeffrey Dahmer Story

Ideatori: Ryan Murphy, Ian Brennan

Anno: 2022

Produzione: Stati Uniti d’America

una recensione a cura di Alessandro Cellamare

Noi ci aspettiamo un tipo alla Charles Manson, e invece Dahmer è un bell’uomo, è docile, non sembra un serial killer.

Anne E. Schwartz (Reporter, Milwaukee Journal) da Conversazioni con un killer: Il caso Dahmer

Nel 1991 Jeffrey Dahmer viene arrestato nella cittadina di Milwaukee. Meglio noto come Il mostro di Milwaukee, Dahmer confessa svariati omicidi e atti di cannibalismo, oltre che parafilie tra cui la necrofilia.
A settembre 2022 Netflix manda in onda una serie in dieci episodi ispirata agli eventi del celebre serial killer, che a distanza di quasi due mesi resta ancora salda nella top ten dei titoli più visti sulla piattaforma. A ottobre 2022 Netflix integra con una docuserie in tre episodi che racconta gli eventi attraverso il registrato catturato dall’avvocato dell’uomo.

Dopo pochi giorni dalla messa in onda, la serie di Ryan Murphy e Ian Brennan diventa un caso, non solo per le notizie sul dissenso da parte dei famigliari delle vittime, ma per il successo esplosivo che porta persino eBay a impedire la vendita di costumi ispirati a Dahmer in vista di Halloween. A reggere il carico dell’interpretazione del cannibale c’è Evan Peters, noto precedentemente soprattutto per la serie cult American Horror Story.

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A differenza di quanto ci si attenderebbe da un prodotto cinematografico contemporaneo dalle tematiche estreme e con un seguito così accanito di fan, La storia di Jeffrey Dahmer non fa leva sull’esca più tipica del genere. Con sorpresa non spinge sul pedale del gore, non incede sull’aspetto morboso e non fa della violenza o della sessualità le chiavi per irretire il pubblico. Al contrario sviluppa la vicenda in tempi diluiti, sfrutta sospensioni, atmosfere rarefatte, abbandona quasi del tutto l’arma della suspense e contorna gli eventi di una colonna sonora a malapena “visibile”, da tappezzeria. Per ricostruzione d’epoca e ritmi distesi, oltre che per tematiche, il rimando è al Mindhunter di David Fincher, del quale ha la forma di uno spin-off minore.
Se non bastasse, a rendere ancor più misterioso il successo del lavoro di Murphy e Brennan sono le battute d’arresto e le defaillance che lascerebbero desistere, almeno sulla carta, persino lo spettatore più indulgente: gli incontri di Dahmer in appartamento con le vittime non sono ben strutturati, non costruiscono una tensione narrativa sempre costante e appaiono un nastro che si riavvolge e ripete le stesse manovre, sia all’interno del singolo episodio criminale, sia tra di loro, con piccole variazioni che non riescono a evitare la stanchezza.

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Il confronto, non per tematiche, con la prima stagione di Mindhunter questa volta è didattico: dove qui la direzione riusciva straordinariamente a tenere desta l’attenzione anche su un lentissimo dialogo tra le mura di un ufficio grazie a una sceneggiatura calibratissima, La storia di Jeffrey Dahmer, per quanto priva di drammatiche lacune sui dialoghi, manca di raffinatezza di scrittura, e quel che resta è qualche valida soluzione visiva, degli splendidi colori e arredi anni ’70/’80 e una delicata soundtrack – l’unica, in realtà, che riesce lontanamente a competere con quella minimalista di Mindhunter. Non aiuta l’osannato Evan Peters, che calza bene un personaggio dalla scarsa motilità facciale ma che non arricchisce in modo memorabile, ricordando le “paresi” alla Gosling.
Se i primi otto episodi vanno via via ad aumentare il sospetto di un prodotto curato ma handicappato da cali e ripetizioni, sono gli ultimi due a confermare che il successo non possa provenire dalla stoffa dell’abito: lo spazio ai famigliari delle vittime è una bevanda annacquata più soporifera di quelle che Dahmer somministrava alle vittime, quasi lo svelamento di una mano incerta sulla narrazione che si era ben aggrappata fino a poco prima su un soggetto accattivante.

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Salvo sviste interpretative, resta da chiedersi allora cosa sia successo, cosa abbia scatenato il trionfo di un titolo che, per quanto aggraziato, manca di ogni tipica ragione di estremo appeal sia per il grande pubblico che per quello più scafato. E non è sufficiente assegnarne merito al tema, sdoganato e ritrito da almeno cinquant’anni, né al fascino di un singolo attore. La questione resta aperta finché, dopo i primi episodi, l’attenzione cade sullo stesso personaggio di Jeffrey Dahmer, quello storico, stagliato sopra ogni possibile narrazione. Dahmer è timido, problematico, e la serie ne ripercorre l’infanzia per gran parte della sua durata, raccogliendo le cause possibili dei disturbi compulsivi e mostrandoci un tenero bambino che rivediamo facilmente nei tratti occhialuti e “docili” del Jeffrey adulto. C’è, poi, il tema dell’abbandono, un topos comune a tanti uomini e donne, in modi più o meno marcati, e il desiderio di un amore che non arriva, e che, quando lo fa, fugge perché l’uomo Dahmer è incapace di muoversi nel modo giusto, e lì fuori, nel mondo dei “normali”, non c’è ascolto. E, per chiudere, il mostro di Milwaukee viene catturato, ma – sorpresa! – non si oppone. A nulla. Confessa, vuol essere condannato, punito, parla di compulsioni che non poteva fermare e hanno fatto male a tanti, lo dice in modo sobrio e sincero, e quel che racconta è esattamente ciò che abbiamo visto negli episodi precedenti. “Jeffrey è solo malato, non colpevole giacché vittima di un sistema” sembra essere il leitmotiv che accompagna, persino in modo non retorico, l’intera serie, connotando – forse anche in modo aderente alla realtà – il personaggio di un’umanità che lo spettatore “capisce” perché condensa l’estremo risultato di ferite universali. Lo spettatore si autoassolve in un’empatia macabra, dunque attraente, perché non ci si può davvero sentire colpevoli nel comprendere le ragioni per cui uno squalo uccide: il dolore per le vittime resta in quanto innocenti – e tale sentimento non è una novità -, ma questa volta convive accanto alla compassione e comprensione per un feroce uomo biondo e timido senza ghigni satanici, scevro da tratti lombrosiani da babau per adulti, privo di manifesta aggressività, e che arriva persino a sostenere di meritare la pena di morte.
E’ così che La storia di Jeffrey Dahmer piazza la palla in buca, manda i titoli di coda e il gioco è fatto.

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Penn Badgley (Joe Goldberg) - You

Il tentativo cinematografico di empatizzare il pubblico su personaggi crudeli non è, in realtà, una novità, ma ha quasi sempre fatto dell’attrazione per il villain l’astuzia principale (la sua diversità, l’anticonformismo e l’antieroismo) e di rado ha giocato la carta del disegno dell’uomo “comune”, con tutte le sue difficoltà e senza redenzione finale o riscatto. In più lo sviluppo seriale, esattamente come accade in un romanzo, giocando sui tempi lunghi della narrazione permette di scolpire personaggi più curati donando immersività allo spettatore, sui cui punti deboli si può ripetutamente abbattere, in modo lecito o truffaldino.
Mettendo da parte i lungometraggi in cui questa specifica empatia verso l’uomo-criminale era stata già leggermente sperimentata, persino con risultati pregevoli (La casa di Jack, Angst), è forse interessante tentare un confronto con un’altra serie Netflix, dal grande successo ma più contenuto, che si annovera tra i thriller psicologici più riusciti di sempre: You. Con un occhio esclusivo alla prima stagione, di sicuro la più riuscita, diventa impossibile non rilevare, verso gli ultimi episodi, un’inaspettata attrazione colpevole verso il protagonista. Qui il gioco diventa più raffinato e diabolico: Joe Goldberg è un uomo comune e ama, e per amore manipola, ma la manipolazione ha cause impreviste e Joe si vede costretto a intervenire in modi esecrabili ma al limite del necessario. La storia prosegue e il baratro si apre, le azioni per frenare la valanga sono sempre più rischiose, il protagonista non può più fermarsi, pena diventare egli stesso la vittima, vittima per aver amato e aver perseguito il suo sogno in modi impropri. Il dialogo di fronte alla gabbia di vetro, sul finale della serie, è una confessione emblematica, il riassunto delle azioni colpevoli ma necessarie in nome di un amore che cerca fino alla fine di salvare sulla cima di un castello di carta.

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Penn Badgley (Joe Goldberg) - You

A differenza de La storia di Jeffrey Dahmer, in You non si viene accompagnati per mano attraverso le ragioni remote e infantili della devianza di Joe Goldberg, e del passato del protagonista si sa poco o nulla. Le sue azioni, tuttavia, sembrano le attuazioni estreme di impulsi e desideri universali, comuni a ognuno di noi (amore, gelosia, odio, difesa), e mai durante la serie acquistano la nota dell’autocompiacimento morboso del protagonista, che agisce solo per salvarsi e perché “non può fare diversamente”, conservando fino ai titoli di coda il suo carattere di umanità. Lo si motiva, dunque, ma senza che il regista metta su schermo le ragioni, perché quelle ragioni – colpo di scena! – sono nello spettatore stesso, ed ecco che diabolicamente il confine tra motivazione e giustificazione si assottiglia. La fascinazione macabra diventa colpevole e chi guarda non si autoassolve affatto, anzi ne esce sporco, forse persino turbato.
Più raffinato rispetto alla serie su Dahmer, You rappresenta non solo un prodotto diretto con maggior maestria, ma portatore di un perturbante che di rado si era visto sugli schermi.
Molto simile al riflesso nello specchio del Dr. Jekyll.
Che, però, questa volta, vede un mostro senza diventare Hyde.

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