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DOCS WIDE SHUT | L’occhio che acceca

una recensione a cura di Alessandro Cellamare

Forma espressiva fra le meno gettonate dal pubblico mainstream, sovente relegata a salottini di stampo pomposamente culturale, scolastico o politico, il “genere” documentaristico rappresenta da sempre un mondo a parte, sorta di laboratorio nel quale, tra pretesa di realismo e libertà artistica, autori più o meno blasonati hanno cercato di raccontare con un taglio emotivo e personale fatti, persone, cose.

Differentemente dal documentario tout court, il doc-film non si limita a guardare il reale, ma lo “pensa”, lo interpreta e ne assegna un senso, un po’ come la grande fotografia fa con l’inquadrato. E’ un punto di vista a tutti gli effetti e, al contrario della semplice ripresa del reale, la parzialità dello sguardo, se non già componente indispensabile, diventa pregio, a patto che l’autore scopra il suo gioco.

Le vittorie, più o meno riconosciute, delle sperimentazioni di Gianfranco Rosi, più che i titoli del campione Michael Moore, sono forse il sintomo più evidente, la punta dell’iceberg del recente tentativo di questo filone di uscire dalle proprie tipiche strutture, quasi urlando il suo essere narrazione al pari dell’altro-cinema. Il doc-film diventa, così, osservazione dell’emozione come fosse essa stessa uno strano animale da scrutare di nascosto, voyeuristicamente, da innescare, irretire, intrappolare. Ed è su questa filosofia che si collocano, ad esempio, i lavori di Ulrich Seidl, tra grottesco, dolore e disturbo, dove a parlare sono mondi sotterranei, marginali, “attivati” dal regista-cacciatore con “provocazioni” e lasciati a esprimersi da soli, non senza estetizzanti riprese, selezioni e sonorità, con l’unico scopo di offrire allo spettatore un corpo emotivo che è soprattutto occhio dell’autore.

Im Keller
Im Keeler - U. Seidl, 2014

E’ lecito domandarsi se esista oggi tempo e luogo per tale forma espressiva all’interno di cataloghi destinati a un più ampio bacino, come quelli delle piattaforme online, ma anche solo se sia cambiato il rapporto fra lo spettatore e il doc-cinema.

Sfogliando le proposte Netflix, piattaforma campione di adescamento di massa, suona bizzarro notare la quantità, seppur percentualmente ridotta, di titoli di questo filone, ma anche la popolarità raggiunta, più in generale, da serie tv come The Jinx, Sanpa o Wild Wild Country.

Affacciandosi nei tunnel di queste doc-serie appare evidente il senso del loro successo, così come sorprende in molti casi l’assoluta adesione a canoni di qualità molto elevati. Siamo ancora di fronte a un compromesso cui il doc-film decide di scendere, che fa della narrazione la traccia portante prima ancora dell’intervista di stampo informativo/culturale. Titoli come i sopraccitati posseggono, difatti, dinamiche avventurose, ritmo da cinema thriller o criminale, colpi di scena e cliffhanger, mostrando come la vita stessa, se montata opportunamente, cadenzata e musicalmente orchestrata, possa già essere una grande narrazione, che assolve contemporaneamente all’intrattenimento immediato e alla necessità di conoscenza.

A far da esca è il genere, tipicamente il mystery, il thriller, il criminale e l’orrore, categorie di facile appeal sin dai tempi del cinema muto, ma nei prodotti più raffinati c’è dell’altro, c’è la caccia al soddisfacimento di un bisogno tipico dell’uomo contemporaneo, sepolto da informazioni discordanti, da un’evoluzione tecnologica difficile da fagocitare, dalla complessità di un mondo che si frastaglia in meandri in cui ci si sente perduti e, paradossalmente, ciechi: il bombardamento del visibile impedisce di riconoscere l’essenziale, l’importante e, in fin dei conti, il Vero.

Il cinema non di finzione tenta il rimedio, passando per la gola attraverso la narrazione tipica della fiction, e spiattella il reale, affascinante, inquietante, fornendo documenti, prove, garanzie di veridicità, ma poco prima dei titoli di coda spesso chiude lasciando intendere che, nonostante tutto, non ci è dato sapere come siano davvero andate le cose, centellinando sospetti già durante lo sviluppo: chi ha, poi, detto la verità? E chi ha sbagliato per primo? Quando il Bene è diventato Male o la malvagità ha tentato di perseguire scopi più nobili?

Il colpo di scena diventa, così, tornare ad alimentare le paure dello “spettatore che chiede di vedere”, renderlo da capo “cieco” e prepararlo al prossimo titolo, in un vortice in cui chi guarda non ha scampo, ma acquista una nuova consapevolezza. Che il riconoscimento della verità non è solo questione di occhi.
Aperti o chiusi che siano.

Wild Wild Country scaled
Wild Wild Country - M. Way & C. Way, 2018
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