Regia: Baz Luhrmann
Anno: 2022
Produzione: Stati Uniti d’America, Australia
una recensione a cura di Chiara Lepschy e Giuseppe Minerva
Prima di tutto non si può non iniziare evidenziando che, senza tema di smentite, il nuovo film di Baz Luhrmann lascia il segno, comunque la si pensi. Forse anche qualcosa di più che un semplice segno. In realtà un marchio. Di fabbrica.
Se da un lato, infatti, l’opera conferma lo stile sontuoso fino ai limiti del debordante rococò che caratterizza da sempre i film del regista, dall’altro lato Elvis va – con ogni probabilità – assai oltre. La sua visione è, in particolare nei primi novanta minuti che narrano l’ascesa di Elvis verso la fama, un’esperienza di totale immersione visiva e acustica in un mondo di immagini, musiche, movimenti di macchina e montaggio che ghermisce lo spettatore e lo proietta in un mondo sensoriale in cui non manca nulla, compresa la ripartizione dello schermo in più campi come in un’esplosiva pagina di fumetti, comprensiva degli inserti in sovrimpressione.
Riprese e ritmo, quindi, da puro spettacolo cinematografico, meglio fruibile se arricchito da un audio ad alte prestazioni, che avvolge e programmaticamente scuote lo spettatore. Poiché l’opera parla, pur sempre, di un assoluto musicale.
Una biografia e una parabola, quelle di Elvis, non facili da riassumere, nonostante i centocinquantanove minuti, in un’opera filmica. Due le principali linee narrative tessute dal regista. La nascita del mito, in senso etnologico e religioso del termine, sin dai tempi della preadolescenza e il rapporto con il suo manager, il colonnello Tom Parker (Tom Hanks).
Emerge con forza la figura di un Elvis (Austin Butler) quasi posseduto dal demone della musica, con cui entra in contatto grazie alla contaminazione tra i generi country, western e, soprattutto, rhythm and blues della gente di colore, che incontra nella Memphis – dove si trasferisce con la famiglia – della fine degli anni ’40 del Novecento. Estremamente evocativa, a tal proposito, è la scena in cui un Elvis appena adolescente è accolto – durante una vera e propria performance musicale in una povera chiesa – da un consesso di neri che suonano e ballano al ritmo di una musica che trasporta il ragazzo in un altro mondo, fra estasi e trance.
Più complessa, invece, è la vicenda della relazione con il manager di un’intera carriera, l’equivoco Parker. Qui il regista fa propria la posizione dominante fra i fan di Elvis, che fanno del rapporto fra questi e il colonnello una sorta di sfida fra un timido e introverso personaggio – fondamentalmente un puro e un semplice, legato alla madre in modo quasi viscerale – e una sorta di genio del male, avido e manipolatore, capace di condizionare l’esistenza del ragazzo prima e del giovane uomo poi per tutta la vita. Tom Hanks dà voce a un personaggio – inabile a provare alcuna empatia nel corso dell’intera vicenda – che non a caso ama definirsi un imbonitore e, quindi, un vero e proprio manipolatore. Che imbonisce, però, non solo il pubblico e la stampa ma anche, e soprattutto, il proprio assistito, un Elvis autentica macchina da musica – per il mondo – e da soldi, per sé e Tom. Forse non casuale, mentre Parker passeggia in un flashback per quel luna park che ha costituito a tutti gli effetti la sua palestra di vita – un fulmineo richiamo all’uomo bestia, quasi un presagio – ricordando il recente film di Guillermo del Toro – di una storia di sfruttamento dell’uomo e del conseguente tragico finale.
Da evidenziare, a proposito del colonnello, la performance di un irriconoscibile (ma al contempo riconoscibilissimo) Tom Hanks, che plasma un individuo epidermicamente fastidioso e insinuante, non solo per Elvis ma anche per gli stessi spettatori del film. Un’incarnazione dell’omino di burro di Collodi, il cui confronto con l’eterno burattino Pinocchio non può non tornare alla mente vedendo il rapporto fra il re del rock & roll e il suo manager, comprensivo del passaggio – autentica serendipità – sulla ruota panoramica di un luna park da paese dei balocchi.
Qualche parola, infine, sulla colonna sonora. Secondo il consueto stile spiazzante, fuori contesto e fuori epoca, delle scelte musicali a cui il regista ha educato i suoi fan, la musica ha un effetto potente se non totalizzante. La presenza efficace – oltre ai brani di Elvis – di pezzi di rapper come Eminem e Doja Cat e della cover dei Maneskin, fa emergere chiaramente come molta della musica successiva al mito Presley sia a tutti gli effetti ad esso riconducibile come fonte d’ispirazione. Senza tema, ancora una volta, di smentite.