ASSOCIAZIONE DI PROMOZIONE SOCIALE

ELVIS | Un bianco col cuore nero

Regia: Baz Luhrmann

Anno: 2022

Produzione: Stati Uniti d’America, Australia

una recensione a cura di Tiziana Garneri

Si può rappresentare in un film la vita di una grande icona della cultura americana, che ancora oggi proietta la sua ombra a distanza di molto tempo dalla sua vita e dalla sua morte prematura a soli 42 anni?
E’ una impresa  titanica in cui il regista Baz Luhrmann (Il grande Gatsby, Moulin Rouge) prova a cimentarsi, lasciando però nello spettatore alcuni interrogativi.
Il film parla di Elvis Aaron Presley (chiamato anche “Elvis the Pelvis” o “The King”), interpretato assai bene dal giovane Austin Butler.
Parla un personaggio baciato dagli dei sin dalla adolescenza per la sua voce con sfumature nere in un corpo bianco, con un estro e una creatività innovativa, capace di amalgamare la musica afroamericana, il gospel, il rhythm & blues, il country creando un genere esplosivo: il Rock & Roll!

Dove la sua musica non è soltanto chitarra e voce, ma un qualcosa che nasce dall’anima e costringe anche il suo corpo dinoccolato a muoversi in modo imprevedibile, con movimenti anche esplicitamente erotici (che verranno anche definiti osceni), ipnotizzando il pubblico soprattutto giovane e femminile che lo ama al limite dell’isteria.

E’ scontato ricordare le umili origini di Elvis a Tupelo, Mississippi, sopravvissuto al fratello gemello, che vive vicino ad un quartiere nero, che frequenta i “negri” (così come allora venivano comunemente chiamati) e la domenica si reca alla Chiesa Pentecostale, ove assorbe affascinato i ritmi e i movimenti che accompagnano la musica gospel.
Di radice ebraico scozzese, Elvis ha i capelli rossi che tinge di nero, acconciandoli con un particolare ciuffo che sarà la sua particolare griffe. Timido, fragile, molto solo, con un rapporto quasi simbiotico con la madre, ama leggere i fumetti dei supereroi. E in cuor suo sogna di diventare proprio un supereroe. Si trasforma appena sale su un palco con la sua giovane band, dove ruggisce come un leone.

Ricchissimo dal punto di vista espressivo e creativo, il film è solo parzialmente un biopic, anche se la narrazione ha una sua solida vena di continuità data dalla voce fuoricampo della figura del Colonnello Parker, un Tom Hanks bolso e pesantemente truccato.

Elvis img 1 tiziana

Personaggio ambiguo, dal passato torbido, imbonitore da circo, avido e astuto, che intravede in questo diamante purissimo di Elvis la possibilità di fare montagne di soldi, diventando il suo manager, ingannando anche la famiglia del ragazzo con un contratto capestro, sicuramente abile nel farlo entrare nella scuderia della RCA. Soldi, tanti soldi, che sottrae anche al cantante per appianare i suoi debiti di gioco.
Per vent’anni tra i due personaggi ci sarà un sodalizio, una sorta di prigione dorata per Elvis, che in fondo è rimasto un ingenuo nella totale solitudine dopo la morte della madre, in parte lenita dall’amore per Priscilla (Olivia DeJonge) e dalla nascita di Marie Louise.
Ma tutte le stelle hanno una fase calante, soprattutto se nel mondo musicale mondiale si affacciano nuovi talenti che comunque a lui si sono ispirati, come i giovanissimi Rolling Stones o i Led Zeppelin, tanto per fare due nomi che si fanno nel film. A parte le pellicole degli esordi, abbastanza disastrosa è l’esperienza dei film con Elvis come attore.
In rotta di collisione con i conservatori per il suo stile giudicato irritante e volgare, l’artista verrà oscurato per un paio d’anni: lo mandano in Germania a fare il militare! Ma altrettanto deludente sarà assistere alla sua rentrée nel ‘68, dove si pretenderebbe di mortificare la sua arte confinandolo in uno spettacolo a cantare le canzoni di Natale adatte alle famiglie.
È qui che il personaggio di Elvis ha finalmente un moto di ribellione. E sul palco si scatena.

Tuttavia il film non può essere neppure considerato un musical, sebbene 36 brani musicali accompagnino la pellicola. In tal senso, il racconto dà pochissimo spazio alla sua profonda amicizia con figure del calibro di B.B. King, Big Mama Thorton oppure Tom Jones, che sono stati così importanti nella sua vita.
E neppure si pone troppo l’accento all’epoca storica che l’America sta attraversando. In fondo Elvis è sotto certi aspetti un precursore anche “politico” degli anni Sessanta. Favorevole ai diritti dei neri, all’integrazione razziale, si scontra col perbenismo bacchettone e puritano di una certa America. Vediamo passare troppo velocemente immagini di repertorio, in una tv in b/n, di Martin Luther King o di Bob Kennedy, profeti di un cambiamento per cui danno la vita. 
L’arte di Elvis è questa voglia di ribellione trasposta in musica. È come se lui andasse di pari passo con i fermenti che attraversano la nazione, traducendoli nelle sue performance.

In conclusione, possiamo ritenere che il film dia sin troppo spazio alla figura del Colonnello Parker, che sempre aleggia con la sua lunga ombra e che mai si confronta con quella che egli considera la “sua” creatura. Non può non spiccare la battuta, forse banale ma con un fondo di verità: “siamo uguali io e te, due strani bambini soli alla ricerca dell’eternità”.

Invero anche se il rocker trovasse la forza di ribellarsi, i motivi economici lo tengono legato al manager. Ogni anno dovrà esibirsi infatti all’International Hotel di Las Vegas, dove si svolge la memorabile l’interpretazione di “Suspicious Mind”, con Elvis sempre più imbottito di farmaci che impietosamente gli somministrano per reggere tanti spettacoli. Egli, tuttavia, può esibirsi in giro per gli USA perché Parker – non potendo uscire dagli States per i suoi traffici loschi -, adducendo falsi motivi di sicurezza, gli tarpa le ali. E l’abbandono da parte della moglie Priscilla non migliora la situazione: lei, pur amandolo, non riesce a tollerare la sua auto distruzione.
E intanto il suo fisico inizia a non reggere, compare anche un glaucoma che Elvis protegge con gli occhiali. Non bastano gli abiti sempre più sgargianti e pieni di orpelli (anche ispirati agli abiti dei karateka, che lui ama) per riportarlo agli antichi fasti.

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Il film ci mostra così un’ultima apparizione, un’immagine di repertorio in cui Elvis bolso, affaticato, e seduto al pianoforte, dà ancora una volta il meglio di sé con una interpretazione da brivido di Unchained Melody.

Poi sopraggiunge la morte. Quindi i titoli di coda del film in campo nero, scritti in oro come si conviene a un re, accompagnati dalla malinconica melodia di In the Ghetto,  quasi a ricordarci ancora una volta la sua infanzia.
A parte le considerazioni, discutibilissime, contenute in questo excursus, il film è molto godibile.
Due interpreti magnifici, un ritmo incalzante, quasi lisergico, come il montaggio in cui le immagini sono spesso velocemente ingoiate da un 45 giri, o si frammentano in varie parti. Un dolce richiamo ai fumetti della giovinezza del King, un tourbillon di colori negli abiti splendidi e fastosi, scintillanti e pieni di accessori.

Perché ciò che rimane negli occhi dello spettatore è quel suo modo di muoversi mentre chitarra e pianoforte urlano tra le sue mani nell’ottima interpretazione del giovane Butler.
È per questa ragione che, tornando alla mia domanda iniziale, rispondo che Baz Luhrmann fa un buon lavoro, anche se con alcuni limiti che nella mia riflessione ho provato a sottolineare.

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