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HOLY SPIDER | Viaggio al termine della notte

Regia: Ali Abbasi

Anno: 2022

Produzione: Danimarca, Germania, Svezia, Francia

una recensione a cura di Elena Pacca

La potenza del dettaglio è uno dei tratti salienti di Holy Spider. Il dettaglio che ci induce a guardare come attratti da una forzatura cui non riusciamo a sottrarci, strangolati nello sguardo costretto all’evidenza dell’orrore di ciò che sta accadendo.

Un viso femminile truccato in modo evidente, i tratti marcati, accentuati in un parossismo estetico che segnerà la linea di demarcazione tra peccato e purezza, tra chi si deve trasformare per incarnare la sensualità sopita ma pronta ad esteriorizzarsi per compiacere il desiderio maschile e chi deve mantenere una pulizia di lineamenti monacale, per essere forse – perché il dubbio latente è insinuato come una minaccia – considerata degna, innocente, almeno non intaccata dalla lussuria e dalla depravazione.

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Mashhad è la città santa dell’Iran. Meta di numerosissimi pellegrini è, al tempo stesso, sovraccarica di perdizione, rappresentata dalla nutrita schiera di prostitute che affollano le sue strade. L’inizio del nuovo millennio la vede protagonista delle gesta di un serial killer che fa dell’eliminazione del vizio e della corruzione morale la sua personale battaglia, una crociata letale verso donne più o meno giovani che si prostituiscono e che pagano con la vita la loro storia di degrado, povertà e droga. Sullo sfondo vediamo un televisore che trasmette le immagini dell’attentato alle torri gemelle a New York. Il male lontano accarezza il male vicino, quotidiano, quello di cui si nutre tutti i giorni la mente precaria di Saeed Hanaei/Mehdi Baiestani, volontario e poi reduce di guerra, padre di famiglia ma uomo non risolto, con un lavoro precario, afflitto probabilmente da disturbo post traumatico che ha innervato un fanatico delirio di onnipotenza, convertendolo in una sorta di angelo sterminatore guidato dal volere di Allah.

Un male che Hanaei, in un rituale sempre più frenetico di mangia/prega/ammazza, si compiace di debellare, di nascondere come polvere sotto un tappeto, addirittura commettendo gli omicidi fra le mura domestiche, e usando materialmente i tappeti – elemento onnipresente nelle case mediorientali – come simulacro tombale atto a trasportare le vittime prima di essere abbandonate come rifiuti alla mercé di una naturale e inevitabile violazione post mortem, che aggiunge violenza a violenza, oltraggio, sfregio e disprezzo.

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Quasi da subito veniamo a scoprire chi è l’autore feroce degli omicidi. E quasi da subito entriamo in contatto con una strana coppia di giornalisti – Sharifi/Arash Ashtiani, un uomo, che lavora per un giornale locale e Rahimi/Zar Amir Ebrahimi, una giovane donna (emancipata verrebbe da dire utilizzando un termine per noi desueto), che viene da Teheran. La conta numerica delle vittime procede con l’incedere della ricerca del colpevole, scarsamente da parte della polizia e alacremente da parte dei giornalisti. Se l’omicida è soprannominato il killer ragno, per l’abilità nel catturare le sue prede, è una ragnatela sempre più stringente quella che viene tessuta intorno al colpevole da Rahimi.

Il film ha un prologo assai crudo, un tema centrale che ci mostra la natura e l’essenza di quest’uomo che si sente sempre più sicuro e più forte nella certezza di operare nel giusto, e un epilogo che è il cuore di tenebra che grava sulla vicenda. Con un’ ultima sequenza – quasi una scena post credits – che resterà impressa con la forza di una violenza struggente terribile e insoluta che lega l’innocenza di chi, come la figlioletta, è davvero ancora bambina, ma in fondo già corrotta suo malgrado da una normalità del male a prescindere e chi, come Ali, seppur ragazzino è già adulto, capace di replicare foss’anche per gioco, l’orrore che, come una muffa ha attaccato le mura di una casa, la natura di una famiglia, l’esistenza di un rapporto di là a venire che mostra i segni evidenti di una continuità del male difficilmente estirpabile o sanabile.

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L’atto conclusivo mette a nudo l’ambiguità di un’indagine e di una sentenza e di un’intera comunità, oppressa da un patriarcato funesto e coercitivo, da un sentimento comune e diffuso che in fondo giustifica l’operato del mostro, in uno sgravio di coscienza che inneggia alla violenza se questa serve a mantenere la purezza e i principi secondo cui educare i propri figli. Le donne sono, come nella peggiore tradizione, o mogli o puttane. Tertium non datur. La giornalista che persegue caparbiamente la propria inchiesta soggiacendo alle leggi che vogliono le donne con il capo coperto da un foulard, i capelli nascosti alla vista, è l’elemento spurio che innesca non solo la risoluzione del caso ma, forse, anche una nuova presa di coscienza nel suo più stretto alleato, quel timido e forse pavido giovane giornalista che l’ha sostenuta e aiutata.

La polizia morale, incombente come una minaccia continua – inerte e cieca, sorda e muta però nei confronti della prostituzione a cielo aperto – la miseria di una donna intesa come genere umano femminile che nulla può se non trova un marito, o che è lasciata sola, abbandonata a se stessa anche dalla propria famiglia di origine e che spesso in situazioni drammatiche è costretta a vendersi, rischiando la vita, per poter sfamare i figli, e, infine, la religiosità oppressiva quanto immanente, giudice estremo che governa tutte le cose, sono i macigni che Abbasi scaglia senza nascondere la mano per mostrarci non solo la mostruosità, l’ottusità (vista soprattutto con gli occhi occidentali) e la barbarie di un perpetrarsi di tradizioni retrive permanenti sino ad oggi, in regime di scioltezza ed esibita normalità, ma soprattutto il dolore. Il dolore di chi si trova suo malgrado stritolato in un ingranaggio dal quale è assai difficile uscire. Per cultura, capacità e soprattutto possibilità. E allora la strada più comoda – che la Storia ci pare avallare pienamente – è quella di continuare, di subentrare ai mostri, perché quello che oggi è chiamato mostro domani magari sarà un eroe e allora in una sorta di quasi ostentato martirio, saranno i figli di quei padri a incarnare ancora una volta e ancora peggio il male. Tutto il male possibile che ancora oggi le donne soprattutto ma, in buona sostanza, un’intera società è destinata a subire, a patire e a combattere, laddove forse una scintilla nel buio sia in grado di accendere un fuoco di rivolta.

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