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IL COLLEZIONISTA DI CARTE | Il film della settimana

Regia: Paul Schrader

Produzione: Stati Uniti d’America, Svezia

Anno: 2021

una recensione a cura di Umberto Mosca

Forse qualcuno si ricorderà delle “carte di morte” che il tenente colonnello Kilgore lascia cadere con disprezzo sulle vittime vietcong che giacciono ai suoi piedi in una delle famose scene di Apocalypse Now. Le stesse carte di morte che il Pentagono diffuse ai tempi della guerra all’Irak, dove Saddam Hussein era l’asso di picche, i suoi figli gli assi di cuori e di fiori, per non citare i vari gerarchi del suo regime, certamente di minor valore. L’idea di rappresentare un intero conflitto attraverso la metafora della partita di poker deve aver colpito non poco l’immaginazione di un Autore (della stessa generazione di Coppola) che ha costruito l’intera sua opera di sceneggiatore e regista raccontando la coscienza nera dell’America degli ultimi decenni. Una coscienza lurida che qui ha l’estetica deformante in modalità fish-eye dei corridoi e delle celle del carcere iracheno di Abu Ghraib e che le sale ordinate e splendenti di tutte le case da gioco d’America non riusciranno mai a ripulire.

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Il collezionista di carte è un film che parla dell’America del post 11 settembre, realizzando una potentissima e inedita similitudine tra i debiti economici e i debiti morali di un intero Paese. Volutamente scarno nella messa in scena di ambienti asettici percorsi da pochi personaggi, il film di Schrader è un’esperienza di stile asettica e affilata, dove le emozioni sono schiacciate tra l’ossessione martellante di tenere sotto controllo il futuro e la continua repressione della sfera empatica, tra gli arredi di camere d’albergo mai veramente abitate e i salotti degli hotel dove le luci delle slot machine sono l’unico elemento di colore.

Asettici e spietati come sono obbligati a essere gli individui, se desiderano sopravvivere nell’America di oggi (ma non è questa la condizione più autentica del Noir sin dagli esordi negli anni ‘40?). Personaggi che stanno male e vivono male, chiamati come sono ad accollarsi quotidianamente il rischio di impresa della propria esistenza.

Un lapidario scorcio di presente e una spaventosa visione di futuro, dove la produzione del reddito prescinde completamente dall’idea tradizionale di lavoro, che era caratterizzata da continuità e progressività dei risultati. Qui tutti i partecipanti al gioco possono vincere o perdere ogni giorno, legati come sono a un debito che tutti hanno, da qualche parte sui loro conti o nelle loro anime, e che non riusciranno mai a estinguere.

Come nell’indimenticabile Lo spacciatore – realizzato ormai trent’anni fa e interpretato dal Willem Dafoe anima nera di quest’ultima opera -, Paul Schrader manda in scena un’anima tormentata che affida alle scarne osservazioni del suo diario il bilancio in progress della sua vita.

Ancora una volta siamo in un noir più particolare del solito, in odore di inferno e di trascendenza, e come in ogni noir che si rispetti la presenza del passato diventa una condizione inalienabile dal disegno di futuro. Perché chi non ricorda l’ossessione per la pulizia delle strade cittadine del reduce del Vietnam protagonista di Taxi Driver?

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