una recensione a cura di Liliana Giustetto
In questo condominio dove il vecchio ascensore si è rotto e deve essere sostituito con uno nuovo, il signor Sternkowitz, impacciato inquilino, decide di non partecipare alle spese per la sua sostituzione perché tanto lui non lo usa mai.
Questo vale fino a pochi giorni dopo.
Siamo di fronte a un racconto semplice, della vita di un piccolo mondo chiuso in un condominio di banlieue.
Al contrario di quello che vorrebbe far pensare il titolo, non si tratta di una commediola da due soldi romantica e banale, anche il trailer ci porterebbe fuori strada nel giudizio.
Gli interni sono sbiaditi e disadorni, gli esterni sono grigi e scrostati, le strade sono semideserte, le band di quartiere sono i più simpatici incontri che si fanno entrando e uscendo dal portone del condominio.
Un rumore minaccioso e stridulo cadenza, senza pace, la vita delle persone, giorno e notte, senza che nessuno sappia di cosa si tratti, facendo venire i brividi anche allo spettatore.
In questo microcosmo di persone pressoché diseredate dalla società e dai legami familiari più classici, possiamo assistere allo sbocciare di nuove amicizie e nuove attrazioni.
Tutte persone con una qualche grande assenza nell’anima, alla ricerca di nulla, ma sensibili e ancora pronte ricevere e a darsi.


Vale per il signor Sternkowitz, che riesce a vincere la sua innata timidezza e si ritrova capace di un’impresa quasi eroica, per la speranza di un futuro amore.
Poi abbiamo una tenera signora tunisina, madame Hamida, che adotta un astronauta che, nonostante l’assoluta impossibilità di comunicare a parole, è in grado di avere più contatti con lei che il suo stesso figlio e la sua famiglia.
Infine un adolescente solitario e responsabile, quasi abbandonato a se stesso, che darà la forza a una bellissima attrice decaduta di andare avanti.
Si possono percepire legami umani che vengono suggellati più con i gesti che con le parole, tutte persone molto isolate dal resto del mondo e particolarmente solitarie, sei storie molto diverse ma che si radunano in una stessa categoria, quella dell’empatia spontanea verso l’estraneo, quando, chi dovrebbe essere vicino, è assente e lo sarà sempre.
Troviamo una meravigliosa Isabelle Huppert, che ci lascia incantati in un pezzo di recitazione teatrale che il suo giovane amico riprende con la cinepresa, in modo da aiutarla a superare il blocco della recitazione che l’ha colpita.
Questo pezzo (veramente tutto il film) sarebbe da vedere in lingua originale perché fa venire i brividi.
Il doppiaggio purtroppo fa perdere buona parte dell’emozione suscitata.
Il ragazzino, Jules Benchetrit, è il figlio del regista e di Marie Trintignant.
Secondo me questo ragazzo ci darà delle soddisfazioni come attore, crescendo.
L’attrice è la sempre più grande Isabelle Huppert.
Michael Pitt è un astronauta stralunato e smarrito, che non sa dov’è atterrato e che si trova ospitato da una dolce signora che lo sostituisce alla figura di un figlio assente.
Loro due riescono a parlare più che altro con la voce del cuore, con i gesti, con le espressioni facciali e con le attenzioni uno per l’altra.
Valeria Bruni Tedeschi interpreta una infermiera di notte che esce a fumare la sua sigaretta durante la pausa e che incontra uno strambo uomo che arriva per comprare merendine da un distributore, in un ospedale deserto, su una sedia a rotelle e che, per poterla rivedere, finge di essere un fotografo.
In alcuni punti il film è tenero, in altri è comico, abbiamo persino un incidente con la cyclette, ma in qualunque momento riusciamo tranquillamente a calarci nella parte e nei sentimenti dei personaggi con tutta la loro umanità, i loro sotterfugi, i loro fallimenti, la loro spontaneità nei rapporti estemporanei.
E poi, alla fine, riusciamo anche a capire che cos’è il suono misterioso.

