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[SPECIALE] INDIANA JONES E IL QUADRANTE DEL DESTINO | Le buone maniere

Titolo originale: Indiana Jones and the Dial of Destiny
Regia: James Mangold
Anno: 2023
Produzione: Stati Uniti d’America

una recensione a cura di Alessandro Cellamare

Per il quinto capitolo di una delle saghe cinematografiche più segnanti per almeno due generazioni, Steven Spielberg lascia la palla a James Mangold (Copland, Ragazze interrotte, Identità), e la Paramount alla Disney. Brividi dietro l’angolo, ma in fondo già il quarto capitolo, a firma del regista di Cincinnati, aveva messo in guardia, soprattutto i nostalgici, da speranze su ritorni di fiamma.

E invece no.

La fa franca chi entra in sala senza troppi patemi, preoccupazioni e pregiudizi, portandosi a casa un giocattolino che intrattiene per oltre due ore, che non forza la mano, studia il maestro e copia con dignità. Ma facciamo un passo oltre e cerchiamo di capire come sia stato possibile.

Avete presente quei vecchi alpini che hanno fatto la guerra e vivono tutta la vita a colpi di ricordi e citazioni delle prodi gesta? Non quelli che si auto-congratulano lecitamente per aver portato a compimento imprese che il 90% di noi si sognerebbe solo di intraprendere, ma quelli che continuano imperterriti a credersi ancora capaci di imbracciare fucili e granate e lottare per la patria. Ora pensate ai sentimenti qui scatenati. Tenerezza? Pietà? Compassione? Senso del grottesco?

Vi presento le quattro emozioni che rischia il cinema quando cerca di avviare revival a tutti i costi: personaggi imbolsiti che tentano invano di far quel che riuscivano un tempo, ripetizioni di dinamiche senza adeguamenti, imitazioni sfiatate, prevedibilità. A tanto si aggiunge la sensazione di non necessità, fallendo l’obiettivo anche nei confronti degli indefessi “alpini” del franchising.

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Era questo quanto si avvertiva alla visione di Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo, titolo nel quale un certo fallito tentativo di ammodernamento rimarcò ancor più i sentimenti di cui si parlava poc’anzi.

Forse era vero: serviva un cambio di guardia verso qualcuno che sentisse il peso dell’eredità e cercasse di farsi onore, anche se tanto non sarebbe stato garanzia di alcunché – serve citare Star Wars, Alien e i blockbuster con ripieno di supereroi?

Sia chiaro: Il quadrante del destino non è all’altezza dei primi tre capitoli della saga (meglio: del primo e terzo), gli manca certa leggerezza tipica della commedia, non lascia tuffare appieno nel passato e neanche urlare alla vittoria del cinema con la C maiuscola, ma sventa abilmente ogni rischio di diventare una decrepita e arrugginita copia degli originali, per essere solo quel che voleva essere: un omaggio, un buon prodotto di maniera e, forse, una dedica a una grande icona della fantasia.

James Mangold ci riesce grazie alla definizione di un protagonista vecchio che non finge di esser giovane, che compie ancora imprese ardue ma “possibili”, che non millanta prodezze né nei modi né nelle parole, che sa di vissuto e, a momenti, di arreso, e che, d’altro canto, non si compiace della propria vetustà. Tratteggiato l’uomo, il regista non incede sulla parte umana e parte con un film d’avventura che saltella da un luogo/episodio all’altro con l’abilità con cui il giovane Indiana Jones scansava un tempo le minacce più improbabili. La costruzione delle sequenze è dinamica ed efficace, da un lato seguendo gli insegnamenti di Spielberg (e prima di lui, di Hitchcock) che impongono di non dar mai tregua allo spettatore, dall’altro progettando montaggi che evitano il temutissimo rischio della baraonda moderna discotecara senza sale. Tra le tante, si prenda, a mo’ di esempio e prova, la sequenza dell’inseguimento in moto della coprotagonista verso l’aereo, in cui non solo il coinvolgimento è massimo (forse uno dei momenti più riusciti), ma il montaggio permette di seguire ogni passaggio della convulsa rincorsa massimizzando l’adesione e l’immedesimazione dello spettatore.

A margine del protagonista e della variegata spettacolarità della pellicola, non sfigura il resto della compagine attoriale, dalla giovane Helena (Phoebe Waller-Bridge), passando per il sempre valido Mads Mikkelsen, nel ruolo dell’antagonista, finendo persino con un insolito Antonio Banderas, più caratterista e convincente che mai. Il bizzarro finale non stona e regge il patto con lo spettatore, a cavallo tra la soluzione temporale de L’armata delle tenebre di Sam Raimi e quella de Il pianeta delle scimmie di Tim Burton.

E adesso? Non sarebbe meglio fermarsi qui?

Evitare di spingere sul pedale dell’acceleratore dell’ennesima saga e seppellirla male?

Disney… “io la odio questa gente” (cit.)

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