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KAFKA A TEHERAN | Altre inquisizioni

Titolo originale: Āyehā-ye zamini
Titolo internazionale: Terrestrial Verses
Regia: Ali Asgari e Alireza Khatami
Anno: 2023
Produzione: Iran, Lussemburgo

una recensione a cura di Elena Pacca

Giorgio Gaber diceva che un’idea, un concetto, un’idea finché resta un’idea è soltanto un’astrazione. Ali Asgari e Alireza Khatami di una bella (e, nella sua semplicità, disarmante idea) hanno realizzato una cosa: un film e, a modo loro, ne hanno fatto una piccola grande rivoluzione. Nove atti brevi compongono la polifonia filmica di un corpus unico che mette in scena la difficoltà di crescere, lavorare, autodeterminarsi, semplicemente vivere, in Iran. Bambini, uomini, donne, anziani, generazioni diverse e ugualmente soggetti protagonisti del palcoscenico esistenziale di questo scorcio di secolo, decisamente buio. Lo spettatore è messo sempre alle spalle di un ipotetico intervistatore/interlocutore dei personaggi che si parano dinanzi a noi. Un controcampo fisso e sempre nascosto di cui percepiamo solo la voce. E il non vedere, ma soltanto intuire chi è di fronte ai soggetti che invece ben vediamo, amplifica il portato delle parole, dei toni di ciò che viene detto e del sotteso, senza che l’implicazione visiva verso chi le pronuncia ci possa condizionare o essere fuorviante. Imposizioni, domande intime, speculazioni, allusioni sessuali, insinuazioni, sotterfugi. Un flusso variegato ma ugualmente sgradevole, prevaricatorio, coercitivo, accentuato dall’ambientazione sempre al chiuso, in interni che ingabbiano i personaggi e li collocano in una posizione di soggezione psicologica.
Asgari e Khatami snocciolano con apparente semplicità e drammatica realtà ciò che un paese sta subendo a più livelli. Il non volto è una rappresentazione per sottrazione di quel unico cogente potere che talvolta si esplicita con funzionari, burocrati che lo esercitano in concreto anche se ne sono soltanto la voce, l’applicativo di sistema, appunto, di un regime teocratico invasivo e soverchiante. La bambina del secondo episodio, alla fine bardata degli abiti tesi a nasconderla del tutto, quando le viene chiesto di specchiarsi per guardarsi, dice di vedere solo più gli occhi. Tutto il resto è coperto, celato, privato dell’identità, mascherato in una sorta di uniforme informe che toglie le sembianze, annullandone la personalità, la diversificazione, la riconoscibilità in qualche modo.

Kafka a Teheran img 1 elena

Il film si apre con il risveglio di una città, una metropoli, Teheran. La trascolorazione della notte in giorno. Un inizio. Si chiude con la stessa città dietro una finestra. Una presenza umana. Un epilogo. Crollano alcune certezze di noi che guardiamo semplicemente di là da un vetro, schermo a fragile protezione del nostro sentirci assolti.

Un film incredibilmente perfetto, strutturato, senza improvvisazione, acuto e diretto, potente e struggente, dotato di una forza che colpisce senza esitazioni o tentennamenti al cuore del problema con un rigore stilistico e contenutistico di raro equilibrio. Sottoscrivo Marco Bellocchio: un film da vedere assolutamente. Passate parola.

[Peccato la superficiale titolazione italiana del film. Kafka c’entra poco se non nell’abusata aggettivazione che fa riferimento a certe situazioni. Peccato aver perso il riferimento ai versi della poetessa iraniana Forough Farrokhzad, vissuta durante il regno di Reza Pahlavi, prematuramente scomparsa]

Kafka a Teheran img 2 elena
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