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Killers of the Flower Moon | Delle Nazioni Native e del loro destino

Titolo originale: Killers of the Flower Moon
Regia: Martin Scorsese
Anno: 2023
Produzione: Stati Uniti d’America

una recensione a cura di Chiara Lepschy e Beppe Minerva

A quattro anni di distanza da The Irishman, Martin Scorsese torna in sala con un film sugli Stati Uniti d’America che si osservano allo specchio con sguardo retrospettivo, portando sulla scena fatti e vicende risalenti a un secolo fa. Un America che – come in altre occasioni – si piace poco, almeno secondo il giudizio di un cineasta che nonostante gli ottant’anni ha il coraggio di lavorare su un soggetto e un tema fortemente politico, forse il più politico fra quelli affrontati nella sua lunga carriera. Una senilità “forte” quella di Scorsese, almeno quanto quella riflessa – anche se in modo totalmente negativo – dall’infido personaggio splendidamente tratteggiato da Robert De Niro.

Com’è capitato di vedere in altre opere del regista newyorkese, la grande storia – quella con la S maiuscola – è filtrata e rappresentata attraverso gli avvenimenti della piccola storia e, in particolare, delle storie “minori”, che hanno permesso di dare un’idea precisa di ciò che il regista voleva portare alla luce, cioè cosa sono stati (anche) gli Stati Uniti d’America e in particolare la loro componente bianca e WASP.

In Killers of the Flower Moon è il turno dei nativi americani, per parlare dei quali Scorsese non ricorre alle classiche visioni dei grandi spazi e delle praterie – che si intravedono solo all’inizio del film con la breve sequenza dell’arrivo del personaggio di Leonardo DiCaprio alla casa di un nativo americano – ma mediante una vicenda terribile di violenze e soprusi che arriva dopo non meno di due secoli di sopraffazione e disconoscimento anche dell’umanità stessa delle popolazioni locali.

A essere rappresentata è, quindi, la fase terminale della distruzione e della cancellazione dei cosiddetti “Indiani d’America”, affrontata quasi come si trattasse dell’evoluzione infausta di una malattia senza rimedio. Con grande originalità, Martin Scorsese prende spunto da una storia tratta dal saggio “Gli assassini della terra rossa” di David Grann, per parlare di una vicenda che potrebbe sembrare in controtendenza rispetto alla storia nota. Sappiamo quanto la deportazione in riserve lontane dai territori di origine sia stata esiziale per le popolazioni native, mentre in questo caso – per ironia della sorte – il terreno assegnato loro si rivelò inaspettatamente ricco di giacimenti petroliferi. Ciononostante, il decorso non fu diverso dal consueto e la storia si ripeté secondo il tradizionale schema.

Come una vera e propria malattia – infatti – evolve la storia narrata, in cui all’inizio non è facile capire se Ernest Burkhart (Leonardo DiCaprio) e soprattutto suo zio William Hale (Robert De Niro) siano buoni e altruisti o diabolicamente cattivi, cosa che con il trascorrere della visione si chiarirà sempre meglio. E come per una malattia senza possibile cura cresce il numero di morti fra i ricchi nativi della Nazione Osage e come una malattia (anzi, proprio mediante una malattia) evolve la vita della giovane moglie di Ernest – Mollie Burkhart (Lily Gladstone) – avvelenata dal quasi inconsapevole e imbelle (nonché avido) marito, diretto dietro le quinte dallo zio.

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Il retrogusto che emerge è quello di una comunità bianca (di una nazione?) irredimibile sotto questo profilo, un’immagine di ciò che fu – e che talvolta continua sotterraneamente a essere – uno stato che ha fatto della sopraffazione e della violenza sulle popolazioni locali una leva essenziale della sua fondazione e dell’affermazione dei singoli e dell’intera comunità WASP. Il tutto ammantato da motivazioni razziali, religiose e culturali – in varia ed efficace combinazione – che hanno consentito di ridurre i nativi americani a ciò che sono (e a quanti sono) oggi, in Nord America in particolare ma anche nella parte meridionale del Nuovo Mondo.

A dar corpo e peso a un film della durata record di tre ore e ventisei minuti, un cast davvero d’eccezione, in cui il confronto ravvicinato fra i due attori feticcio di Scorsese – Robert De Niro e Leonardo DiCaprio – costituisce uno spettacolo nello spettacolo, date le forti personalità in gioco. Inarrivabile ancora una volta il primo, che con una recitazione controllata e mai sopra le righe cesella in modo straordinario un personaggio la cui melliflua perfidia tocca vertici davvero inarrivabili. Più sopra tono l’interpretazione del secondo, le cui capacità risaltano in modo inequivocabile ma che sono forse state messe a dura prova dal confronto diretto e serrato con De Niro, come le cronache non accreditate del dietro le quinte sembrano far pensare… All’altezza della situazione sia Lily Gladstone nel ruolo della moglie di Ernest Burkhart/ Leonardo DiCaprio, sia Jesse Plemons che impersona l’investigatore di una nascente FBI inviato a Fairfax per indagare sugli accadimenti.

Non si può non concludere con qualche parola sulla regia di Scorsese, che ha dimostrato come l’età anagrafica non conti nulla quando la passione per il cinema e la fiamma dell’intelletto brucia ancora. La performance del regista ha trovato, ma non c’era da dubitarne, la giusta sponda nella bella e crepuscolare fotografia di Rodrigo Prieto, che senza indulgere in alcun eccesso “coloristico” ha assecondato l’intenzione di Scorsese di comunicare anche attraverso le immagini quel senso di irreversibile deterioramento della vicenda.

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