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KURSK | Ruggine

Regia: Thomas Vinterberg
Anno: 2018
Produzione: Belgio, Lussemburgo

una recensione a cura di Chiara Lepschy e Giuseppe Minerva
Kursk img 1 beppe e chiara

Kursk – nelle sale italiane da fine luglio pur essendo stato presentato al Toronto International Film Festival del 2018 – sigla lo sconfinamento di Thomas Vinterberg nel territorio dei film mainstream europei e ciò sia per il suo cast internazionale, in cui mancano molti dei grandi attori nord-europei che hanno segnato la filmografia del regista, sia per le modalità con le quali è trattato il tema, che – pur senza particolari concessioni alla spettacolarizzazione e con un’attenzione comunque mirata alla psicologia dei personaggi – percorre le inevitabili tracce lasciate dal fatto storico e da altri film, spesso di pura fantasia, che hanno per protagonisti i sommergibili da guerra: paura, claustrofobia e – certamente in questo caso – morte.

La vicenda del sottomarino Kursk è nota ai più dalle cronache dell’epoca: inizia con il naufragio del 12 agosto 2000 nel Mare di Barents non lontano dalle coste finlandesi e si conclude nove giorni dopo con la conferma dell’assenza di superstiti fra gli oltre cento membri dell’equipaggio. A portare al tragico esito finale è la concomitanza di vari fattori: difficoltà ambientali, impreparazione della marina russa e ritrosia del governo di Mosca ad accettare gli aiuti occidentali, autorizzati ad intervenire solo alcuni giorni dopo l’incidente quando – ormai – non c’era nessuna possibilità di salvezza per i ventitré marinai che avevano trovato rifugio nell’unico compartimento che aveva resistito alle due esplosioni causa dell’affondamento.

Al di là della drammaticità di una vicenda che colpì il mondo per le sue caratteristiche e per il rischio di contaminazione nucleare corso dai mari artici (non bisogna, dimenticare, infatti, che il Kursk era una delle unità di punta della flotta navale russa), Vinterberg narra l’irresistibile declino (attraverso quello che è, forse, uno dei suoi capitoli più esemplificativi) dell’impero ex-sovietico e della nuova Russia (presidente della federazione era, già all’epoca, Vladimir Putin). La storia del Kursk è segnata, infatti, non solo dalle velleitarie manifestazioni d’orgoglio nazionalista ma anche, e soprattutto, dalla decadenza e obsolescenza dell’apparato industriale e militare russo. Il regista lo descrive in maniera chiara pur senza calcare eccessivamente la mano (non era necessario, in effetti). Vediamo quindi una base navale quasi priva di manutenzione, un sottomarino di punta equipaggiato con missili obsoleti e pericolosi causa – con ogni probabilità – del disastro. E poi una triste teoria di mezzi di soccorso assenti (molti furono venduti all’estero a varie compagnie di prospezioni sottomarine) o assolutamente inadeguati poiché obsoleti tecnologicamente e non soggetti ad alcuna manutenzione da anni. E allora la vicenda si scontra con le batterie del batiscafo di salvataggio di durata inadatta alla profondità da raggiungere, con un sistema di aggancio deteriorato non in grado di mantenere la tenuta ermetica…insomma una vicenda drammatica in un contesto devastato da un collasso tecnologico, politico e morale inarrestabile. Nulla di ciò che esisteva ai tempi dell’Unione Sovietica – certamente sopravvalutato ma reale – è sopravvissuto, se non la convinzione di essere ancora una grande potenza, che è probabilmente costata la vita ai ventitré possibili superstiti.

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Ruggine e nient’altro, quindi, non solo nelle profondità del Mare di Barents – dalle quali il sommergibile venne recuperato un anno dopo – quanto in superficie, in quella marina e – ancor più – in quella Federazione Russa lasciata in crisi economica e alla mercè di accaparratori e profittatori di ogni genere.

La regia di Thomas Vinterberg sfrutta una doppia dimensione dello schermo, lasciando al formato più angusto le scene iniziale dell’incidente e finale della tragica conclusione e allo schermo pieno la lunga parte centrale dedicata al tentativo di salvataggio. A ciò aggiunge l’uso di colori nei toni del grigio-azzurro e una pellicola quasi da documentario d’epoca consumato dal tempo, grazie al quale dà ulteriore corpo sia al senso di decadenza che la vicenda trasmette, sia al tempo trascorso dal fatto.

Importante il cast, in particolare nei ruoli che ruotano intorno al protagonista Matthias Schoenaerts e che conferiscono ulteriore consistenza al tutto. Fra questi, Lea Seydoux – moglie di uno dei ventitré possibili superstiti –, Colin Firth – commodoro della marina inglese –, Michal Nyqvist, August Diehl e l’icona Max Von Sydow, che dà corpo ad un insopportabile ammiraglio russo che incarna meglio di qualsiasi altra immagine del film, la ruggine e lo sfacelo di un passato che è alle spalle e di un futuro che non si palesa all’orizzonte.

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