Regia: Alice Rohrwacher
Anno: 2023
Produzione: Italia, Francia, Svizzera
una recensione a cura di Chiara Lepschy e Giuseppe Minerva
La chimera di Alice Rohrwacher ci parla – sin dal titolo e dalla locandina, assai particolari – di un gruppo di personaggi, e dell’ambiente in cui si vivono e si muovono, liminali e stralunati come solo le terre di Toscana ed Emilia-Romagna sanno mettere al mondo, si pensi ad un libro come “Il poema dei lunatici” di Ermanno Cavazzoni.
Al centro della vicenda narrata vi è Arthur (Josh O’Connor, un’interessante rivelazione) e i suoi amici razziatori di tombe etrusche nelle campagne fra la Toscana, il Lazio e l’Umbria degli anni ‘80. Uscito dal carcere, dove ha finito di scontare una pena detentiva per i precedenti furti compiuti senza denunciare nessuno dei suoi compagni, Arthur riprende l’attività di tombarolo poiché possiede il dono di individuare le necropoli ipogee grazie ad un’inspiegabile capacità di rabdomante. Oltre a ciò, rientra in contatto con una bizzarra famiglia composta solo da donne, costituita dalla signora Flora (Isabella Rossellini) e dalle sue numerose figlie – lamentose e un po’ ridicole – che vanno a trovare periodicamente la madre rimasta a vivere in una vecchia e fatiscente casa nobiliare. Flora attende speranzosa il ritorno della figlia Beniamina, che con Arthur aveva una relazione sentimentale. Dalla vecchia signora Arthur incontra Italia (Carol Duarte), una donna con due figli – tenuti nascosti alla proprietaria nelle stanze del palazzo – che lavora nella casa come domestica tuttofare durante il giorno e che si innamora di lui. Il sentimento della giovane donna potrebbe costituire una ventata di novità nella vita di Arthur, bloccato spiritualmente e fisicamente in un lavoro – quello di competente tombarolo – che non potrà che dargli nuovi problemi e da un amore per una ragazza che non c’è più dal quale fatica a separarsi (come Flora, peraltro). Tutto ciò mentre la scanzonata e lunare banda di profanatori di tombe è alla ricerca del ritrovamento clamoroso che ne cambi per sempre le fortune. Ma quando ciò effettivamente avverrà le cose prenderanno una piega diversa da quella desiderata.
Alice Rohrwacher delinea un universo che quasi galleggia fra la realtà e il sogno e fra la vita e la morte. La realtà anche cruda del “lavoro” di Arthur e il sogno di una scoperta straordinaria e della ricchezza che ne deriverebbe, non facile da raggiungere. E la vita – soprattutto la potenziale nuova vita – rappresentata da Italia e la morte che impregna di sé in modo sottile ma evidente ogni cosa: le antiche tombe etrusche da saccheggiare, la vecchia stazione ferroviaria dell’immaginario paesino toscano di Riparbella e – ancor più – la fatiscente casa nobiliare di Flora – cadente anche se mostra ancora i segni della passata bellezza – alla quale Arthur resta in qualche modo incatenato attraverso il ricordo di Beniamina e l’affetto della padrona di casa.
Il rapporto di Arthur con il mondo sotterraneo e ipogeo – così legato alla morte – è trattato dalla regista in modo delicato e poetico che culmina con quel filo rosso che vedremo pendere dall’alto dell’antico luogo di sepoltura all’interno della tomba, provenendo da quel mondo “capovolto” che è chimerica promessa di felicità. Un filo rosso che non può ricordare quello dell’arcano dei tarocchi – il cosiddetto “appeso” – riportato con qualche piccola modifica nella locandina del film.
La Rohrwacher utilizza più formati dello schermo cinematografico per raccontare la storia, evocando atmosfere che anche attraverso le musiche e i colori (ri)costruiscano un sentimento antico e sognante. E scegliendo un titolo che richiama, in modo forse un po’ criptico, la chimera per Arthur di una vita diversa.