Titolo originale: Boy from Heaven
Regia: Tarik Saleh
Anno: 2022
Produzione: Svezia, Francia, Finlandia
una recensione a cura di Elena Pacca
La religione, il potere, le lotte di successione, il rapporto Stato/Chiesa, la perdita dell’innocenza.
Un plot a scatole cinesi, capovolgimenti di fronte e manipolazioni. Chi è chi e di chi ci si deve fidare? Tarik Saleh confeziona un giallo tra Hitchcock e Agatha Christie, dove man mano che si procede si rimane sconcertati dal marcio, dalla corruzione, dalle reti di chi congiura e di chi vuole dettare il corso della storia. Tutto sotto la coltre pesante di un precetto religioso che, come la famosa coperta, è sempre troppo corta; per quanto la si tiri, lascia sempre scoperta una parte e chi è da quella parte è dalla parte sbagliata e se serve va sacrificato. Un mondo ostinatamente e pervicacemente maschile, quasi che le donne nemmeno abitassero la città, le strade, le piazze, le case. Una forza numericamente preponderante e schiacciante che mette paura per la massa critica in grado di generare oppressione, sottomissione e mancanza di libertà ed emancipazione. Un’estesa ragnatela che invischia chiunque ne venga a contatto. Corrotti e corruttori e persone che si trovano nel posto sbagliato al momento sbagliato. Tra chi è palesemente colpevole e chi è innocente fino a prova contraria, fino a quando la perdita d’innocenza seppur provocata, indotta o frutto di una minaccia, rende chiunque complice del male. In un mondo senza scampo, dove la ricerca di verità è un atto rivoluzionario e pericoloso. C’è chi perde la propria coscienza, chi la morale, chi i propri principi e chi, la vita.
A tratti didascalico, con qualche incoerenza narrativa, alterna momenti più classici a inquadrature di forte impatto e suggestione, giocando sugli spazi e su una sorta di pattern cromatico iconografico in special modo relativamente alle scene corali degli allievi della scuola coranica di Al-Azhar o delle geometrie architettoniche che si allargano o si stringono sino a diventare angusti come il corridoio di casa dell’Imam.
Tarik Saleh, regista svedese ma con padre egiziano e che ha vissuto per diverso tempo in Egitto, realizza un altro film di finzione – dopo Omicidio al Cairo – profondamente innervato della situazione socio politica del paese. Un fermo immagine che cristallizza un momento storico di criticità e soprusi.
Seppur sulla falsariga di alcuni film – soprattutto americani – d’inchiesta, dove la verità o almeno parte di essa veniva a galla e in qualche modo i responsabili dei misfatti (in generale) erano sanzionati o comunque messi in condizione di non perpetrarli ulteriormente, qui non v’è traccia di tutto ciò. L’idea di giustizia, la ricerca dei colpevoli di atti deplorevoli o peggio criminali, è del tutto fuori portata, (nonostante Giustizia e Verità vengano declamate ripetutamente all’interno della comunità religiosa della moschea/università islamica di Al-Azhar). È solo polvere, tantissima polvere da nascondere sotto un tappeto su cui continuare a pregare. E allora quel moto che sale spontaneo al termine della visione, come un rigurgito amaro e che prende il nome di “Verità per Giulio Regeni”, assume un connotato ancora più terribile e sconfortante in chi crede e pretende una giustizia terrena, umana e commisurabile alle azioni commesse.