Titolo originale: Nightmare Alley
Regia: Guillermo del Toro
Anno: 2021
Produzione: Stati Uniti d’America, Messico
una recensione a cura di Elena Pacca
Il fuoco, le fiamme che divampano, una sepoltura, un letto in mezzo a una stanza dove giace un vecchio moribondo…
Guillermo del Toro, dopo un prologo che ritornerà come un sogno ricorrente, ci accompagna con mano sicura nel labirinto delle ossessioni, quelle che meglio conosce. Un universo freak di persone declassate talvolta a bestie, automi o poco altro, in uno spazio circoscritto, quale può essere una fiera di attrazioni dal magico al sovrannaturale, in cui i soggetti recitano lo stesso copione giorno dopo giorno, sera dopo sera. Procurare gioia senza viverla è una forma di tristezza incommensurabile. C’è chi si adatta, chi se ne vuole andare e chi lo considera un trampolino accettabile per coltivare le proprie ambizioni o prendersi una rivincita dalla vita. Come Stan (Bradley Cooper), il protagonista del prologo, che approda alla fiera e cerca di imparare il mestiere di illusionista, mentalista, cimentandosi nella lettura del pensiero.
Là dove tutto è finzione, riuscire a parlare con l’aldilà sembra vero più del vero. Perché siamo disposti a tutto pur di credere a una cosa che desideriamo con tanta intensità da sospendere l’incredulità, senza tema di apparire ridicoli o peggio di essere alla mercé di individui senza scrupoli. Non c’è il fantastico, il surreale e i mostri questa volta non sono altro da noi, ma siamo noi umani, portatori insani di una mostruosità indotta o innata che rischia di contaminare anche le anime più pure se non ci si ritrae come Pete (David Strathaim), colui che insegnerà alcuni segreti a Stan, o si scappa come Molly (Rooney Mara), la ragazza elettrica.
Poi la virata noir, terreno meno praticato dal nostro. La storia torbida, i molti scheletri nell’armadio, l’ingordigia di denaro che obnubila prudenza e senso della misura, l’ingresso di una femme fatale perfida e manipolatrice (Cate Blanchett), gli abbindolatori e gli abbindolati, il lucrare sulla disperazione altrui, la povera ragazza tenera e innamorata che vede svanire il proprio sogno di riscatto, la società che non perdona. Una parabola esistenziale di ascesa e caduta che traccia un percorso di prevedibile amarezza.
Una prima parte che, pur non raggiungendo il lirismo e senza toccare la vena cupamente romantica di altre opere, delinea un mondo brutale e reale, un tunnel degli orrori senza via d’uscita o quasi. E poi ci lucidiamo gli occhi per le luci che illuminano il buio, l’incursione dei neon, la casa iniziale di hopperiana memoria, l’inquadratura a soffitto a la Orson Welles. Tratto da un romanzo del 1946 – The Nightmare Alley di William Lindsay Gresham – già trasposto sullo schermo nel 1947 da Edmund Goulding, Guillermo del Toro, realizza una versione lineare, a tratti didascalica. La magia si percepisce ma non sortisce l’effetto wow!, sfuma e si dissolve lasciandoci un po’ il senso di un trucco non riuscito. O non riuscito come noi ci saremmo aspettati che fosse. Incanto e disincanto giocano dialetticamente non solo sulla pellicola, ma anche con lo spettatore.
Menzione speciale per Toni Collette/Zeena, mutevole e caleidoscopica, sicuramente aiutata da un ruolo meno vincolato a uno stilema classico e un interrogativo destinato a restare pura accademia: cosa sarebbe successo se il ruolo di Stan fosse stato interpretato da chi avrebbe dovuto essere e non è stato: Leonardo di Caprio.