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LA FIERA DELLE ILLUSIONI | L’insostenibile leggerezza dell’apparire

Titolo originale: Nightmare Alley

Regia: Guillermo del Toro

Anno: 2021

Produzione: Stati Uniti d’America, Messico

una recensione a cura di Alessandro Sapelli

L’analisi della figura del mostro è sempre stato un tema assolutamente portante nell’arco della filmografia di Guillermo del Toro.
Il regista messicano ha costantemente attinto a piene mani dal proprio background culturale per mostrare su grande schermo creature fantastiche di ogni tipo, provenienti dal mondo della tradizione popolare, dei fumetti, ma anche da quei “sogni lucidi” che lui stesso dice di aver vissuto con frequenza durante l’infanzia. Creature dall’aspetto mostruoso, ma spesso dall’animo puro o fragile. Esseri dai lineamenti duri e spaventosi ma subalterni all’uomo, costretti a vivere relegati nell’oscurità.

La fiera delle illusioni, rifacimento della pellicola del ’47, permette al regista di ribaltare questa prospettiva. Si tratta della prima volta in cui del Toro abbandona del tutto l’elemento fantastico per proporre una storia il cui protagonista contrappone al proprio aspetto piacevole e a modi di fare suadenti una personalità che si rivela, progressivamente, sempre più nera. Stanton Carlisle è un uomo dal passato ignoto ai più che decide di aggregarsi ad un luna park itinerante: una volta entrato nelle grazie di alcuni dei giostrai presenti, ne studierà e ruberà i trucchi per cercare poi di spiccare il volo verso palcoscenici più prestigiosi.

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Il film è suddiviso in due atti ben distinti, caratterizzati anche da una fotografia che, dal punto di vista stilistico, assume una funzione narrativa.
Nella prima parte, infatti, le ambientazioni hanno il rosso come colore dominante: che sia l’interno di un tendone da circo, o un’insegna luminosa che lampeggia nella notte, è il sinonimo delle ultime tracce della passione e dell’umanità del protagonista, non ancora del tutto ottenebrate da ambizione e avidità.
Nella seconda parte, è netta la sterzata verso toni freddi, quasi glaciali: i protagonisti si muovono in ambienti asettici (esemplificativo su tutti lo studio della dottoressa Ritter), emanazione diretta della loro aridità morale.

In La fiera delle illusioni, infatti, non si salva quasi nessuno. Tutti i personaggi principali, ad eccezione di quello interpretato da Rooney Mara, agiscono per il proprio tornaconto personale, in una gara continua a chi sia più abietto e meschino. Tutte le situazioni che potrebbero avere una parvenza di magia o mistero vengono inesorabilmente rivelate, per la disillusione totale dello spettatore. Anche dietro il numero più bello ed efficace c’è un banale trucco: il solo obiettivo è quello di ingannare il prossimo.
Emblematico in tal senso il rapporto di amore e odio che nasce tra Stanton e Lilith Ritter, melliflua psicanalista a cui Cate Blanchett conferisce un fascino mefistofelico. La loro relazione, fatta di giochi mentali e basata sul ribaltamento continuo delle dinamiche tra predatore e preda, è uno degli aspetti più interessanti del film.

La scelta di proporre, oggi, un film noir di stampo classico potrebbe sembrare in un primo momento un’operazione fuori tempo massimo.
La maestria di del Toro sta però nell’esser riuscito ad intercettare sia il gusto del pubblico, grazie ad una storia di sicura presa e alla scelta di un cast di livello (dai protagonisti fino all’ultimo dei comprimari), sia quello della critica, grazie ai numerosi piani di lettura del film in sé. La fiera delle illusioni sa infatti essere sia abile intrattenimento sia riflessione teorica sull’essenza stessa della messa in scena e del rapporto tra cinema e spettatore. Il viaggio nella mostruosità dell’animo umano è probabilmente l’opera più cupa del regista messicano, ed è senza dubbio una prova di maturità brillantemente superata.

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