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L’ULTIMA LUNA DI SETTEMBRE | Padre all’improvviso

Titolo originale: Ėrgėž irėhgüj namar
Regia: Balžinnâm Amarsaihan
Anno: 2022
Produzione: Mongolia

una recensione a cura di Chiara Lepschy e Giuseppe Minerva

L’ultima luna di settembre (Ėrgėž irėhgüj namar) è il film d’esordio alla regia di Amarsaikhan Baljinnyam, presentato in prima mondiale al Vancouver International Film Festival 2022. Il regista ha alle spalle una buona esperienza come attore sia in film mongoli, sia in film internazionali (ha preso parte, ad esempio, alla serie Marco Polo prodotta da Netflix). In questo caso, ritaglia per sé il ruolo del protagonista Tulgaa.

Lultima luna di settembre img 1 beppe e chiara

Il film ha due anime: la prima affronta il tema antropologico, laddove nel corso della narrazione ci mostra paesaggi, vita quotidiana e costumi della Mongolia per quel che riguarda – in particolare – la sua prevalente anima rurale, mentre la seconda indaga con tratto delicato e sensibile il mondo dei rapporti interpersonali e, soprattutto, la questione della genitorialità.

La scena di apertura tratteggia immediatamente il contesto della vicenda: da una parte vediamo un uomo integrato nella vita cittadina e nella modernità e dall’altra l’immenso paesaggio rurale dove gli esseri umani sono marginali e per cercare la connessione telefonica – e quindi il contatto con il resto del mondo – occorre recarsi in uno specifico punto del territorio e mettersi in piedi e in equilibrio su un cavallo, al fine di innalzare il cellulare il più possibile con un lungo bastone e trovare il segnale utile per chiamare, cosa che rende ancor più difficile la comunicazione, poiché le parole dell’interlocutore arrivano con fatica solo tramite il vivavoce. Un’immagine evocativa che rende splendidamente non solo il contrasto fra antico e moderno ma anche – fisicamente e simbolicamente – le difficoltà del contatto sotto ogni punto di vista.

La telefonata portata avanti così faticosamente, informa Tulgaa – ormai inurbato nella grande città – che suo padre (scopriremo più avanti che si tratta di un patrigno) sta morendo e vorrebbe vederlo un’ultima volta.

Il protagonista torna quindi nel suo villaggio d’origine – che forse non si può nemmeno definire tale visto che i pochi abitanti vivono in iurte isolate – e dopo la morte del patrigno decide di rimanere lì il tempo necessario per completare la fienagione, il raccolto a cui allude esplicitamente il titolo originale del film. Lavorare al raccolto è per Tulgaa una sorta di passaggio di consegne e un modo di onorare la memoria del padre, concluso il quale rientrerà in città. Ma fare i conti con le proprie radici e il proprio passato non è così semplice: la vicenda si fa più articolata, infatti, per la presenza di Tuntuulei (Tenuun-Erdene Garamkhand), un bambino che vive con i nonni e lavora nei campi mentre la madre è lontana in città e del padre non ci sono notizie. Entrambi i personaggi hanno ferite e insicurezze profonde che Tuntuulei cela dietro una sfrontata spavalderia e Tulgaa con un’apparente chiusura e una limitata partecipazione emotiva. Ciononostante – e forse proprio per questo – faranno ben presto breccia l’uno nel cuore dell’altro e per Tulgaa sarà l’inaspettata occasione di calarsi in un ruolo genitoriale che potrebbe permettergli di risolvere i nodi del passato rapporto con il patrigno.

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Il periodo della fienagione, però, ha termine e Tulgaa deve tornare in città: il film ci consegna un finale aperto in cui sta allo spettatore con la propria sensibilità ipotizzare l’evoluzione. In questo ricorda il finale di The quiet girl, che ha più di un punto in comune con L’ultima luna di settembre. In entrambe le opere lo sviluppo è lento e sguardi e silenzi hanno un ruolo fondamentale; il contesto, l’ambiente e le caratteristiche dei personaggi vengono lasciate intuire più che apertamente descritte. La storia di Tulgaa, in realtà, non la conosciamo, ma lentamente la intuiamo: è stato allevato da un patrigno che lo ha amato ma non è riuscito a dimostrarglielo, preoccupato com’era di avere solo su di sé l’onere dell’educazione. Ha scelto di vivere in città e ciò probabilmente ha creato una frattura con il genitore; ha una fidanzata con cui manca un confronto pieno sui reciproci sentimenti, tanto che lei gli rivela solo con un messaggio audio di avere un figlio. Tuntuulei – dal canto suo – non ha un padre, ha una madre probabilmente poco affettiva e interessata a lui e due nonni che se ne prendono cura ma che, forse, hanno le stesse preoccupazioni e difficoltà che avevano assillato il patrigno di Tulgaa. Tutto questo lo cogliamo in modo frammentario e fa parte di quel registro delicato e pudico con cui la vicenda è narrata. Al centro, qui come in The quiet girl, vi è una riflessione sulla genitorialità in qualche modo affine a quella portata avanti da Kore’eda: non contano tanto i legami di sangue quanto l’empatia e la capacità di calarsi in un ruolo.

Accanto a questo, c’è – come accennato – il lato antropologico del film, trattato attraverso la descrizione della vita di ogni giorno e delle feste e tramite le immagini dei tozzi cavalli ancora così presenti nella vita quotidiana e i bellissimi paesaggi dove la figura umana quasi si smarrisce. La città, di fatto, quasi non appare se non per confronto: com’è possibile, si chiede un perplesso Tuntuulei, che dove i cellulari prendono e ci sono grandi hotel bastino solo cinque stelle per esprimere il massimo della categoria, se il cielo della Mongolia di stelle ne ha milioni?

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