ASSOCIAZIONE DI PROMOZIONE SOCIALE

MADRE | Il film della settimana

una recensione a cura di Umberto Mosca

Tra le imperdibili rivelazioni di quest’ultimo anno e mezzo di stravolgimenti nell’universo della distribuzione, vi è senza dubbio l’accesso all’attenzione del grande pubblico della filmografia variegata e complessa di Bong Joon-ho (vedi la riproposta sul grande schermo di Memorie di un assassino e, adesso, di Madre). L’autore premio Oscar per Parasite, infatti, in due decenni di carriera si è sempre mosso trasversalmente realizzando un’idea di “cinema totale”, che va dal thriller al noir, dal film d’azione all’horror, fino alla commedia drammatica e/o grottesca. Registri narrativi differenti che, a loro volta, si mescolano nell’effetto “pastiche” che caratterizza le singole opere.

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È la ricetta di un “cinema popolare d’autore” secondo cui per comunicare le cose importanti è essenziale fare film che intercettino il gusto del grande pubblico, nella tradizione del cinema coreano che contende ai blockbuster americani la difesa delle quote di mercato.

Non è un caso, dunque, che in questo preciso momento il cinema di Bong Joon-ho sia il cinema, per come realizza la sintesi tra grandi temi globali e modelli narrativi di genere accessibili all’immaginario collettivo.

Madre è il suo quarto lungometraggio, che come le altre opere trova la sintesi perfetta tra un’estetica dell’iperbole, dell’esagerato e del “fuori misura” e uno sguardo trasversale e organico sulle differenze economiche, sulla giustizia sociale, sulle discriminazioni di genere e sull’ottusità delle istituzioni, dove l’unico rifugio per i personaggi è rappresentato dalla difesa dei legami familiari. Ed è proprio a questo punto del discorso sull’Autore che entra in campo l’originalità di Madre, il film che mette in scena la protagonista Kim Hye-ya, l’attrice coreana più popolare della tv. Tutta la forza della sua ambiguità prende vita dalle scene di danza – un capolavoro – che fanno da cornice al film, che la presentano come una figura dolce e commovente da un lato, sottilmente inquietante e inafferrabile dall’altro. Perché, come vuole la tradizione coreana, la danza in maschera è un dispositivo culturale che permette a chi va in scena di smascherare le ipocrisie e di arrivare ad esprimere una piena verità su se stessi, a costo di cambiare continuamente la luce sui personaggi e sugli avvenimenti. In un continuo spiazzamento dello spettatore, incentrato sulla pioggia che dilava la memoria e sul fuoco che brucia la realtà per fossilizzarne i significati.

Spingendosi oltre al classico Rashomon di Kurosawa, che settant’anni fa ci interrogava su quale verità fosse quella vera, Madre pone allo spettatore un’altra domanda irresistibile: e se la verità non fosse quella che a noi piace pensare che sia?

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