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MANODOPERA | Quando gli emigranti eravamo noi

Titolo originale: Interdit aux chiens et aux Italiens
Regia: Alain Ughetto
Anno: 2022
ProduzioneFrancia, Italia, Svizzera, Portogallo

una recensione a cura di Chiara Lepschy e Giuseppe Minerva
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Il titolo italiano scelto per il film di Alain Ughetto non restituisce in modo adeguato il senso dell’originale francese, forse perché considerato offensivo. Ma per chi? Gli italiani? I cugini transalpini? Difficile saperlo. Quello scelto, Manodopera, declassa l’emigrazione – come meglio si chiarisce guardando il film – soprattutto al problema della ricerca di un lavoro migliore e di una più degna sopravvivenza, cosa peraltro non da poco. Anche se – a onor del vero – la questione della difficile accoglienza degli italiani (e degli immigrati in generale) nella Francia (o in uno qualsiasi dei paesi più abbienti) degli inizi del XX secolo è toccata dal film solo quando il principale protagonista della storia – Luigi Ughetto, avo del regista – è costretto a spiegare a uno dei figli che gli italiani non possono entrare in alcuni locali, come scritto sulla porta, per non correre il rischio di essere morsi dai cani. Un tocco leggero su un aspetto per nulla marginale delle vicende legate all’emigrazione in paesi stranieri, che non può non far tornare alla mente quello di Roberto Benigni in La vita è bella.

La vicenda racconta la storia di una famiglia piemontese di montagna, per la quale le difficili condizioni climatiche, l’economia di mera sussistenza e una povertà a volte estrema, sono causa della partenza degli uomini per la Svizzera e la Francia in cerca di lavoro. In particolare, narra la storia di Luigi Ughetto, bisnonno del regista. Assunto per lavorare alla costruzione del Traforo del Sempione in Svizzera e successivamente di una diga in Francia, conosce la futura moglie che porterà poi a Ughettera (il paese natale, in cui quasi tutti hanno il cognome Ughetto). Con lei dà vita a una famiglia numerosa e con lei vive alcuni dei passaggi più difficili del secolo breve, partecipando alla I Guerra Mondiale dopo aver partecipato – ancor prima di sposarsi – alla guerra coloniale di Libia ed migrando definitivamente in Francia dove gli italiani non sono ben visti (come espresso dal titolo originale) per vari motivi. Ad esempio perché sono disposti a ogni durezza e sacrificio pur di lavorare, a guadagnare poco abbassando così il salario medio anche di tutti gli altri (il dumping economico e sociale non nasce quindi con le ondate migratorie del XXI secolo…), a sfuggire alla politicizzazione degli inutili discorsi sui diritti e sullo sfruttamento. E diventando, infine e paradossalmente, francesi quando la Francia viene occupata dai tedeschi nel corso del secondo conflito mondiale e ha bisogno di nuovi cittadini resistenti. Il tutto inframmezzato dalla reiterata perdita per malattia di alcuni dei tanti figli.

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Si tratta, quindi, della narrazione della storia famigliare del regista e delle sue ormai remote origini italiane, ancora ricordate in famiglia poiché legate al passagio dall’Italia alla Francia. Un regista la cui presenza fisica durante il film è tangibile attraverso la voce che pone domande sul nonno – il primo a diventare ufficialmente francese – e le mani, che compaiono più volte in scena per sistemare i vari personaggi o addirittura per interagire con alcuni di essi (passando al protagonista, ad esempio, un martello). Per realizzare un film che parla del passato degli italiani emigranti e – in controluce – degli emigranti di oggi, il regista adotta la tecnica d’animazione in Stop Motion, che ben si confà a chi è abituato a lavorare (anche) con le mani e non solo con il proprio intelletto. Il risultato finale è un tanto drammatico quanto poetico ritratto di famiglia, in cui si intrecciano la Storia con la S maiuscola e le piccole storie di persone e famiglie comuni travolte dalla povertà e dalle guerre della prima metà del Novecento. Un piccolo gioiello antropologico ed etnologico di ciò che è stata l’Italia emigrante per il mondo.

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