Regia: Pol Cruchten
Anno: 2013
Produzione: Lussemburgo
una recensione a cura di Alessandro Cellamare
Lo scorcio di un paesaggio, l’angolo mal illuminato di una città, foglie cadute di un colore sfumato raccontano talvolta, per sintonia personale, di interi mondi e storie finanche complesse. E’ il risultato sedimentato del nostro vissuto o di quello altrui attraverso costruzioni immaginifiche proprie o indotte.
L’arte visiva, nelle sue differenti manifestazioni (fotografia, scultura, pittura, grafica, altro), ha l’audacia di emanciparsi dalla verticalità del sogno soggettivo e innescare delle quasi precise rappresentazioni in ogni sguardo, attingendo dal sentire dell’epoca e dagli archetipi emotivi collettivi. Il cinema, come collezione di arti, inclusa quella visiva, punta alla loro orchestrazione, spesso non necessitando di essere Arte in ognuna di esse, ma sperando di diventarlo nell’ensemble.
Never Die Young, di recente approdo su Netflix, è un folgorante esperimento che sceglie di usare solo due delle forme espressive possibili ma di massimizzarne la resa: il racconto in prima persona fuori campo e la fotografia.
Il primo è la narrazione verbale e biografica della vita spezzata di Guido Peters, dall’infanzia a oggi, essenziale, asciutta, calibrata, della sola durata di 66 minuti, spalla asettica del vero racconto, eseguito magistralmente per immagini evocative: inquadrature il più delle volte fisse su personaggi spesso immobili, dotati quasi sempre di maschere approssimative e misteriose di cartone o cartapesta.
L’attraversamento emotivo lascia impietriti per potenza, limpidezza e silenziosità di figure e paesaggi, un contrasto elegiaco che si attua nello scontro tra il tema drammatico della droga e il carattere pacato del mostrato. Si termina la visione con la forte sensazione di aver visto i luoghi dell’uomo attraverso il suo sguardo emotivo, avvertito il suo necessario dolore e compreso il suo conseguente annullamento.
Imperdibile.