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NOMADLAND | A Glance On

un rapido sguardo su Nomadland

Le note di Ludovico Einaudi esaltano la sospensione, il dramma, la rassegnazione di vite, tante, che travolte da qualcosa di più grande o non metabolizzabile, vagano, costrette o per scelta, negli immensi ma sbiaditi spazi americani.
Precise scelte di stile ed una calzante interpretazione permettono di viaggiare in un lampo dalle ferite politiche non ricucite alle profondità dell’animo.
Un film in unico tono che, però, resta.

Ezio Genitoni

Politicamente corretto come tutti i film premiati in questa scontata edizione Oscar, a mio parere si regge sulla indiscutibile bravura della Frances McDormand e la buona colonna sonora di un esperto come Ludovico Einaudi.
Mi pare che non vi sia nulla di particolarmente interessante da segnalare da un punto di vista registico. Albe o tramonti, ottimi panorami dell’Usa occidentale, ma che a mio parere non hanno particolare mordente e nulla di innovativo.
Questo viaggio sul camper/casa di Fern oltre a corrispondere a difficoltà economiche, alla descrizione di gente che vive in modo parallelo alla società “normale” con la sua organizzazione e le sue regole, forse voleva anche parlarci di un viaggio interiore della protagonista che in fondo abbraccia questa scelta.
Mi pare operazione che in sé non ha nulla di nuovo. Altri film hanno già trattato tale argomento: il viaggio come esperienza di ricerca esistenziale .

Politicamente corretto, dicevo, perché questa edizione Oscar (ormai scontata passerella a favore della distribuzione e delle major) dà buonisticamente risalto alle differenze razziali, all’apporto degli autori orientali, ai diseredati in seguito alla crisi economica della grande recessione.
Tutto secondo previsioni.

Forse mi aspetto qualcosa di più da film più innovativi come spero sia Drunk
di Vinterberg con credo un ottimo Mikkelsen.

Tiziana Garneri

Nomadland è l’affresco di un mondo ai margini, di buona fattura e interpretazioni, ma manca di eccezionalità. Gli episodi sono quasi sganciati e i momenti lirici brevissimi, pochi secondi lungo il viaggio in furgone. Poesia sul finale, ma è troppo tardi.
Per loachiani incalliti.

Alessandro Cellamare

Frances McDormand ci ha dimostrato ancora una volta che le basta alzare un sopracciglio per esprimere una miriade di sentimenti, anche senza parole.
Anche questo suo terzo Oscar, per me, è risultato meritatissimo.
Di una semplicità spiazzante, dialoghi ridotti al minimo, attori non professionisti, una trama pressoché inesistente eppure questo film, quasi documentaristico, riesce perfettamente nell’intento di farci scoprire tutto un mondo che fa parte della vita americana e che noi non conosciamo direttamente.
Pare esistano quasi solo questi nuovi nomadi a popolare questa parte di America, gli altri, i regolari, quelli che hanno una casa, un lavoro, dei legami stabili, pare che non esistano.
I nomadi vivono tra di loro, si aiutano, si ignorano, interagiscono, in maniera totalmente indipendente da una società che non li accoglie, ma li riconosce.
Si tratta di un film di introspezione.
Ed è anche il tipico road movie.
Ci sono tanti tipi di road movie.
Ci sono quelli dove esiste il viaggio e non la meta.
Alcuni hanno una meta ben precisa.
Altri ancora iniziano per caso e si ritrovano ad avere un valore molto particolare.
In alcuni il protagonista parte da solo e trova compagni sul suo percorso.
In altri si parte in gruppo e ci si ritrova soli.
Film di fughe e film di inseguimenti.
Ma sempre film in cui l’essere umano capisce quanto il viaggio sia uno strumento validissimo per fare una introspezione e per trovare un significato alla propria esistenza passata o futura.
Per trovare la forza di ricominciare, o per capire che si è raggiunto il capolinea.

Liliana Giustetto

Se Ken Loach entra in rotta di collisione con i suoi personaggi, ci fa impattare e non di rado ferire, Nomadland pare girato da un drone – sapientemente diretto – che rimane a distanza di sicurezza dagli eventi, sorvolando sulle sensazioni, gli umori, le reazioni. Non basta quella scatola sfondata a dare il senso di una cesura col passato, a rompere con fragore una sorta di rassegnata ma a tratti quasi compiaciuta accondiscendenza a una vita nomade di luoghi e sentimenti che finisce con l’essere sintetizzata da un sasso levigato e bucato che poco trattiene se non uno sguardo verso un altro indefinito altrove.

Elena Pacca

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