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PRIGIONE 77 | Adelante al futuro

Titolo originale: Modelo 77
Regia: Alberto Rodríguez
Anno: 2022
Produzione: Spagna

una recensione a cura di Elena Pacca

Barcellona 1976. Francisco Franco, il caudillo che ha tenuto la nazione ostaggio di una dittatura, costringendola a un oscurantismo e a un’arretratezza anacronistica, è morto da tre mesi. Sta iniziando il periodo della Transizione, la Spagna è in fermento, sembra voler dare una spallata ad un passato sin troppo presente e immanente. Ma non fa i conti con tutto. Soprattutto quell’apparato – polizia – secondini – direttori delle carceri – esercito – che più di ogni altra istituzione sono stati il braccio operativo, nonché armato che ha esercitato il potere coercitivo e repressivo del fascismo ai livelli più bassi e atroci. Prova ne sarà che in quegli anni i rigurgiti franchisti sono frequenti nelle forze militari, sino a sfociare nel famoso Golpe del Generale Tejero del 1981 con tanto di irruzione armata in parlamento e un altro tentativo, fallito sul nascere, l’anno successivo.

Alberto Rodriguez, che molti ricorderanno per La Isla Minima, un thriller cupo, torbido e disturbante che metteva in scena al di là della storia, quella zona grigia dove albergavano dubbio, inquietanti verità e ambiguità nella figura di uno dei due poliziotti a capo delle indagini, torna su luogo del delitto, cioè quel periodo, appunto, successivo alla morte di Franco in cui tutto è possibile e dove il tutto non è metafora ma è proprio ventaglio di possibilità, sventagliata di mitraglia sul muro delle cose che possono accadere e che quindi possono cambiare il corso della storia.

Prigione 77 img 1 elena

Le carceri spagnole, mantengono ancora il retaggio repressivo e violento, nulla sembra essere cambiato per i detenuti e per chi è in attesa di giudizio. Manuel, giovane ragioniere accusato di appropriazione indebita, rischia una pesantissima condanna. È abbandonato a se stesso. Gli viene assegnato un avvocato d’ufficio che è come un verdetto preventivo visto che nulla farà per perorare la causa del suo assistito. Unico interlocutore di Miguel è Pino, maturo compagno di cella che deve ancora scontare almeno dodici anni e che si è auto isolato recludendosi paradossalmente ancora di più – il suo posto in cella è racchiuso da pesanti tendaggi che all’occorrenza lo isolano anche da Miguel come da tutti quelli che sono passati prima di lui – per preservarsi una sorta di integrità nel degrado fisico e morale. Come ne La Isla Minima si ricompone una coppia di protagonisti, in parte antagonisti ma sodali nella “missione” che devono compiere, fosse anche la convivenza più o meno pacifica in quel territorio ostile. Nel carcere ci sono fazioni, protezioni e faide interne. Tutto sotto gli occhi e le brutalità delle guardie carcerarie. La prigione è terra di nessuno. Il mondo esterno sembra ignorare o dimenticare chi è detenuto. La storia procede, ma lì dentro è cristallizzata, ancorata a forme repressive di stampo franchista. I detenuti, costretti in condizioni disumane, vessati quotidianamente, formano un sindacato il CO.PE.L. che possa farsi portavoce delle loro istanze presso l’opinione pubblica. A più riprese viene chiesta l’amnistia (che la Spagna mai concederà come viene indicato nelle note al termine).

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Il film è la rappresentazione di un girone infernale, un lento procedere del male che viene perpetrato nella totale impunità, da chi proprio per questo si sente inattaccabile. Rodriguez costruisce un film claustrofobico, cromaticamente scuro, arido, dove le pareti sembrano convergere e ripiegare su sé stesse, chiudendo ogni speranza, ogni prospettiva, serrando le fila di un momento eterno, duraturo, un fine pena mai in grado solo di condurre alla pazzia come quella del detenuto che dall’inizio alla fine, ciclicamente è fermo nel suo mantra “io uscirò domani” quando presto capiamo che quel domani non ci sarà. Solo così, nella reiterazione di un sentimento pervaso di delusione, aspettative disattese, scoramento, paura, rabbia, rassegnazione, il venir meno della fiducia nelle istituzioni, prende ragionevolmente e palesemente forma l’idea che l’unica soluzione sia quella di tentare la fuga. La fuga è ciò che compie la Spagna intera di fronte alla responsabilità di non essere riuscita a tagliare veramente i cordoni col passato ma, anzi, ad aver pensato sull’onda della voglia di rinnovarsi che il cambiamento sarebbe stato un atto spontaneo, naturale, fisiologico quasi. E invece no. Per fuggire davvero da quel passato e da tutto quello che ha comportato per la Spagna, bisognava aprirsi un varco, con fatica, con precisione, con attenzione, puntellando la struttura laddove servisse, così come hanno fatto i detenuti con il tunnel per l’evasione.

Il finale quasi bellocchiano, se non che non di un sogno o di una speranza ma di una realtà vede Miguel e Pino incamminarsi, come passanti di un mattino qualunque, per le strade di Barcellona, prima insieme e poi ognuno per la propria direzione, verso un futuro che va inevitabilmente avanti, nonostante tutto.

[Javier Gutiérrez, il poliziotto compromesso con il franchismo de La Isla Minima è Pino, umbratile e dimesso detenuto di cui non conosciamo il reato commesso, che tiene alla sua piccola libreria personale, di cui conosce a memoria i romanzi e che accetterà soffrendo ma anche sorridendo quando le guardie glieli bruceranno in cortile. Miguel Herrán, giovane talentuoso sa passare assai bene dalla spacconeria romantico guascona de La Casa de Papel alla dolente e rabbiosa caratterizzazione di una persona catapultata all’improvviso in un inferno in terra che a poco a poco prende coscienza del suo essere persona e riesce ad uscire dall’apatia annichilente per tentare di cambiare e trasformare le cose.]
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