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RIMINI | Il peso opaco della realtà

Regia: Ulrich Seidl

Anno: 2022

Produzione: Austria, Francia, Germania

una recensione a cura di Elena Pacca

Potessero un pugno nello stomaco, un manrovescio in pieno volto, procurare dolore e piacere questo sarebbe ciò che suscita Rimini, l’ultimo film di Ulrich Seidl, a partire dalla scena iniziale in un ospizio, che ci precipita immediatamente giù nel dirupo del disagio e del malessere, quella commistione fra attrazione e repulsione, dal quale si fatica a risalire.

Ostico disturbante impietoso, Rimini inquadra un frammento di vite abbruttite e brutalizzate dagli eventi. L’inverno non è solo quello meteorologico ma è la stagione finale di anziani ancora autosufficienti convogliati su pullman che dall’Austria (tutt’altro che felix) li portano a svernare sulla riviera Romagnola. C’è una tristezza di fondo, che nobilita l’esistenza e riesce, nonostante tutto, a far breccia nello squallore di una località che nulla ha di ridente e mostra il suo lato freddo, grigio, anonimo e disperante. Perché il mare d’inverno d’altronde è un concetto che il pensiero non considera.

Ritchie Bravo è un cantante folk neomelodico austriaco da tempo trasferitosi in Italia, ha un fratello, una madre di cui si celebrerà il funerale e un padre come quasi tutti gli omologhi coetanei anche tedeschi con un trascorso nelle fila naziste, confinato ora in un ospizio. Appesantito dagli anni, consapevole del proprio declino, ma con l’orgoglio di esser stato quello che era, sbarca il lunario con piccoli concerti negli hotel semideserti e altrettanto piccole concessioni sessuali da gigolò di provincia. Lo seguiamo nel suo peregrinare sempre più difficoltoso, nonostante gli onnipresenti stivali, e il cappotto di pelliccia di foca indossato quasi a pelle, una coperta di Linus che sembra infondergli una sicurezza che va via via scemando, come inghiottita dalla nebbia e poi coperta dalla neve che avvolge e poi sommerge il paesaggio del lungomare, una distesa di desolazione e assenza, assai lontana anche da quell’illusione luccicante del divertimento che riveste d’estate. I bancomat che non rispondono più alle sue richieste di denaro, gli impresari che impongono cachet irrisori, le scopate a pagamento, la fatica quasi fisica, sempre più evidente nello scegliere e poi indossare gli abiti di un guardaroba oltremodo kitsch fino al momento di svolta che introduce un altro elemento – il passato che riemerge con prepotenza – a minare ulteriormente la precarietà di un vivere spatriato che diventa sempre più fatto di espedienti, di menzogne e di bassezze. Nonostante queste c’è una percezione del dolore che trafigge, un portato che lungi dalla mera speculazione a favor di spettatore, è reale ed è molto più che un fugace passaggio emozionale, perché – nonostante l’apparente freddezza stilistica cui Seidl ancora una volta si attiene – si addentra sotto la superficie e lì resta anche dopo l’uscita di sala.

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Michael Thomas è un Richie Bravo strepitoso, capace di commuoverti con l’intensità delle sue canzoni, che sfodera una gamma espressiva di mobilità facciale, ammiccamenti e ritrosie, spavalderia e annichilimento, e poi movenze, posture, atteggiamenti che incarna più che interpretare, senza ombra di manierismo, un uomo a tratti assai respingente e poi così umanamente fragile nella sua caduta.

Seidl è regista di contrasti, si ama o si detesta. Ti costringe a guardare il lato brutto, a volte osceno, delle cose. Non offre spiragli edulcorati, il peggio è l’orrore quotidiano con cui dover fare i conti, confrontarsi, andare avanti, imponendosi a volte di ricercare con ostinata disperazione un lampo di possibile felicità, che rischiari come un razzo segnalatore che non tutto è buio e perso intorno a noi, che una qualsivoglia salvezza o via d’uscita, per quanto remote, possano ancora essere alla nostra portata.

E anche se non abbiamo accumulato le stesse sconfitte nella vita (e nemmeno mai assaporato quel barlume di successo e notorietà), siamo afflitti lo stesso da certi piccoli inciampi quotidiani, da mezze disillusioni e, non avendo voce propria (diversamente da Ritchie Bravo!), non resta che affidarci a cantanti migliori di noi affinché interpretino e rilancino quelle intermittenze del cuore che scalfiscono il nostro io.

Si cerca sempre se stessi, in fondo. O qualcosa di noi che non ci è chiaro o non abbiamo capito: le ragioni di una sofferenza o di quella malattia sotterranea che ti prende il respiro ed è nera e umida come la malinconia.  
Pier Vittorio Tondelli, Rimini.

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