una recensione a cura di Ezio Genitoni
Una breve clip del regista Arnaud Desplechin introduce la visione di un polar in cui, dice, tutto ciò che accade corrisponde a verità.
Anche durante le notti del periodo natalizio, il commissario Yacoub Daoud lavora incessantemente con la sua squadra nella difficile città di Roubaix, in Francia, un tempo florida ed ora in estrema decadenza. Il caso della morte di un’anziana donna (effettivamente tratto da cronaca reale) è, dei mille raccontati, il più dettagliatamente narrato.
Dal punto di vista del linguaggio sono presenti tutti gli elementi del noir, come le atmosfere cupe e notturne o come l’immancabile voce fuori campo (affidata, anziché al protagonista, a Louis, goffo neofita della squadra di polizia). L’azione consegnata a più casi e storie separate, che si inseguono con ellissi ripetute, crea movimento: toglie respiro allo spettatore e allo stesso tempo giova alla godibilità narrativa. Il montaggio, veloce ma mai impazzito, offre il tempo di riflettere. La fotografia è in cerca di volti nell’oscurità.
Alla radice vi sono certamente opere come quelle di Jean-Pierre Melville, creatore de Lo spione (Le doulos) e di Frank Costello faccia d’angelo (Le Samouraï), capisaldi noir, che fanno del buio, della città e della tensione narrativa, una cifra peculiare.
Dal punto vista del contenuto il focus è su immigrazione, miseria, criminalità e relative dinamiche sociali e familiari. La città è descritta come luogo di frontiera. Si può credere, essendo lo stesso regista originario di Roubaix, che il tutto sia messo in scena, “a ragion veduta”.
Il rimando, in questo caso, è senza dubbio a opere come L’odio di Mathieu Kassovitz e al recente, ma non meno interessante, I Miserabili di Ladj Ly. Desplechin però non ne ricava una fotocopia, ne effettua una declinazione meno cruda dove le fazioni (legge versus fuorilegge) sembrano non essere separate da solchi invalicabili (lo stesso commissario è di origine nordafricana).
Occorre soffermarsi sul titolo. Che cos’è la “Lumière”?
Da una parte una luce potrebbe essere Marie, che candida e ingenua si espone alla giustizia pur di evitare, lei pensa, la separazione dalla sua Claude.
Più chiaramente, la luce, o gli sprazzi di luce, potrebbero essere l’arresto dello stupratore della piccola Agathe o la “liberazione” di Sophie dell’imprevedibile asfissia familiare.
Senza dubbio la luce è Daoud. Con la sua abilità, la sua umanità, la sua empatia, quasi un supereroe, mai retorico.
Come contrappeso, però, anche l’incendio notturno con cui si apre il film è luminosissimo. Si presume, poiché non visto, lo sia anche l’ulteriore incendio su cui si indaga in seguito.
Fuochi che, spesso presenti in molte opere del tutto diverse, non sono affatto quelli palpabili ma stilizzati e simbolici in Burning di Lee Chang-dong e neppure quelli in Fuocoammare o in Notturno di Gianfranco Rosi, lontani e inafferrabili.
I fuochi di Desplechin sono brillanti, veri, tangibili e si sviluppano vicino allo spettatore. Inquietanti ed insidiosi, squarciano la notte nel ventre di Roubaix e, chissà, un commissario umano e dalla mente libera, con la forza e la leggerezza di un purosangue (sua passione) e con l’indole dello scommettitore, forse un giorno riuscirà a spegnerli. Manterrà viva solo la luce emanata dalla sua sigaretta.
Sono passati cento anni dal primo Poirot (ottobre 1920). Lo schema narrativo è simile, le doti del detective pare siano sovrapponibili. Stile, complessità, ambiguità e contesto sono profondamente cambiati.