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SELVA TRAGICA | Il film della settimana

una recensione a cura di Umberto Mosca

È difficile pensare a un’esperienza più insolita per lo spettatore che solitamente si addentra nella giungla di Netflix nella classica condizione sospesa tra la ricerca di modelli narrativi sicuri di qualità, in parte già visti, e la moderata curiosità orientata alla scoperta di cose un po’ nuove.

Selva tragica – già presentato nella sezione Orizzonti a Venezia 2020, orientata per definizione a far emergere nuove tendenze estetiche – rappresenta invece un’esperienza inedita e particolarmente originale per come mescola uno sguardo documentaristico a spunti drammaturgici “di tendenza” legati alla discriminazione delle donne.

L’ottava regia della messicana Yulene Olaizola è infatti un film-organismo perfettamente concepito per far smarrire il pubblico, attirandolo in un labirinto inestricabile di colore e suono, in cui sin dalla prima lunga inquadratura iniziale si suggerisce di guardare con attenzione, di ascoltare e di decifrare contando su tutte le risorse sensoriali a disposizione.

Un film sull’attesa, un impasto interminabile di sensazioni, che ti si attaccano addosso ma che cambiano continuamente forma, dove lo sguardo si perde nei campi totali sugli infiniti intrecci di verde, dove tutte le relazioni tra i personaggi si svolgono in una condizione di visione incompleta, limitata, sospesa…

Dove tutte le azioni, anche quelle più drammatiche, si svolgono e si concludono in una sorta di silenzio rassegnato e trattenuto, seguendo la regola per cui nella selva bisogna stare attenti a non fare rumore.

Un film imperdibile in cui, nella sua astratta immutabilità, la giungla diventa una sorta di scenario teatrale per consumare il conflitto tra l’indifferenza della Natura e la tensione alla sopravvivenza che anima l’Uomo. I tempi sospesi, gli sciabordii sull’acqua, i colori chiari coloniali sporcati dalle belluine esperienze, il richiamo degli animali come lamenti ancestrali deformati senza un inizio e una fine. Una grande lezione di spettacolo cinematografico, dove l’assenza di codici consueti deve condurre lo sguardo a fare con ciò che trova a disposizione.

Tutto questo non è altro che la forma del film, la mirabile confezione all’interno della quale emergono in maniera affascinante una visione politica sullo sfruttamento dei lavoratori in America Latina e una riflessione antropologica sull’identità della donna sublimata nei miti arcaici locali.

Con una poetica voce pensante che ci invita sin dall’inizio a spostare il nostro punto di vista per poter godere dell’irresistibile attrazione dell’alterità.

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