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[SPECIALE] DUNE – PARTE DUE | Del Potere: Economia, Guerra e Religione

Titolo originale: Dune: Part Two
Regia: Denis Villeneuve
Anno: 2024
Produzione: Stati Uniti d’America, Canada

una recensione a cura di Chiara Lepschy e Giuseppe Minerva

È giunta finalmente nelle sale – attesa dai fan di tutto il mondo, dopo il ritardo dovuto allo sciopero degli sceneggiatori e degli attori di Hollywood – la seconda parte del kolossal fantascientifico Dune, l’opera cinematografica di Denis Villeneuve che completa l’intreccio narrativo su cui si fonda l’omonimo romanzo di Frank Herbert del 1965.

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La domanda chiave alla quale provare a rispondere prima di analizzare il film è la seguente: cosa si recensisce, realmente, parlando di Dune – Parte due? La trama e le vicende raccontate dal regista canadese sono, infatti, quelle del romanzo, con variazioni di portata secondaria o ininfluente. Si tratta quindi di concentrarsi soprattutto su due nodi principali: il primo relativo alle scelte di sceneggiatura – a cui hanno lavorato lo stesso regista e Jon Spaihts, specializzato in fantascienza (Prometheus e Passengers su tutti) – con la maggior o minor enfasi data ai temi più rilevanti del soggetto originale, e il secondo alle peculiarità e alla resa di immagini, fotografia, colonna sonora e suono.

Iniziamo col dire che dal punto di vista visivo – cioè delle immagini e della scenografia che danno contesto e forma all’ascesa al potere di Paul Atreides su Arrakis – il film è pienamente riuscito, almeno quanto – e probabilmente assai più – della parte prima. Difficile dire se il genio visionario e psichedelico di Alejandro Jodorowsky – il cui progetto mai realizzato di Dune ha influenzato tutta la miglior fantascienza dagli anni ’70 in poi (si pensi alla prima trilogia di Star Wars) – possa considerarsi soddisfatto. Quel che è certo è che Denis Villeneuve ha dato fondo a tutto ciò che la tecnologia mette oggi a disposizione per creare mondi alternativi e complessi come quello di Dune, a cui la produzione ha aggiunto – grazie a un ragguardevole budget – un cast così importante da non poter essere menzionato per intero, data la lunghezza dell’elenco di star coinvolte nel progetto.

L’estetica visiva del film si basa sull’alternanza fra le scene ambientate nel deserto di Dune, preponderanti e splendidamente riuscite, e le architetture brutaliste degli edifici e degli interni della casata Harkonnen, tornata sul pianeta Giedi Prime dopo la partenza da Arrakis. In ambedue i casi, la fotografia di Greig Fraser (Premio Oscar per Dune (2021) e già autore della splendida fotografia di The Batman (2022) di Matt Reeves) e l’uso della computer grafica hanno permesso di ottenere immagini estremamente sofisticate in grado di dare ai due ambienti un’impronta fortissima grazie, anche, al sapiente uso dei colori dominanti, l’arancione per Arrakis e il grigio metallico (e malsano) di Giedi Prime. A ciò si aggiungono i richiami al mondo dei manga giapponesi e a Capitan Harlock in particolare, alla cui estetica si rifanno in parte aspetto e abbigliamento di Paul Atreides.

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Nei vari passaggi tematici che innervano la vicenda, il regista – fedele nella sceneggiatura agli eventi del romanzo – mantiene un controllato equilibrio nel trattare alcuni aspetti che hanno un ruolo centrale nella narrazione e che sono di particolare delicatezza in un periodo storico, il nostro, in cui è facile urtare la sensibilità degli spettatori, punto particolarmente critico per le odierne dinamiche hollywoodiane. In quest’ambito rientra la potenziale deriva fanatica del popolo Fremen al manifestarsi di colui (Paul Atreides) che rappresenta, secondo le profezie, il Kwisatz Haderach, cioè il messia che solleverà le masse di Arrakis contro l’impero, liberandole dall’oppressione. Difficile non scorgere, in tutto ciò, qualcosa di più del semplice riflesso del fanatismo islamico che negli anni della stesura del romanzo, paradossalmente, era solo una pallida versione di ciò che abbiamo sperimentato negli ultimi trent’anni. Discorso analogo, seppur attenuato per probabile scelta del regista, vale per il peso e il ruolo giocato dall’ordine “religioso” delle Bene Gesserit, la cui secolare manipolazione delle linee genetiche delle grandi casate non può non richiamare alla memoria l’influenza della Chiesa cristiana, prima, e cattolica, poi, nelle faccende matrimoniali ed ereditarie delle famiglie reali europee.

Infine, anche se certamente non ultimo per importanza, vi è l’impiego – da parte della gilda commerciale – della spezia estratta dalle sabbie del pianeta Dune per viaggiare, del quale è sottolineata più la valenza economica e di potere alla base della guerra scatenata dall’imperatore che il riferimento metaforico a un’epoca e una cultura, quella degli anni ’60 e di Frank Herbert, che sull’uso ricreativo di sostanze psicoattive ha costruito un intero mondo e, insieme a questo, una vera e propria poetica.

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In conclusione, il film si pone come un elemento chiave dell’immaginario cinematografico del XXI secolo, in cui sono stati dispiegati tutti i tasselli necessari per farne uno snodo fondamentale del genere fantascientifico: il romanzo da cui è tratto, un cast straordinario e glamour – il regista è diventato uno di quegli autori con i quali ogni attore farebbe carte false per lavorare –, una riuscita visiva coerentemente in linea con un universo Villeneuviano (si pensi ad Arrival, a Blade Runner 2049 e allo stesso Sicario) difficilmente superabile per efficacia e potenza e, infine, una riuscitissima colonna sonora già premiata con l’Oscar nel 2022. Non manca nulla, quindi, per dar vita a un’opera d’intrattenimento di livello superiore, che non rappresenta – però – un evento dirompente nella storia del cinema di genere, come furono – seppur in modo diverso – 2001 odissea nello spazio, Guerre Stellari (il primo a creare un coerente universo alternativo che molto deve al Dune di Herbert), Blade Runner o l’Arrival dello stesso Villeneuve.

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