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[SPECIALE] DUNE – PARTE DUE | Questo mondo è più che crudele

Titolo originale: Dune: Part Two
Regia: Denis Villeneuve
Anno: 2024
Produzione: Stati Uniti d’America, Canada

una recensione a cura di Elena Pacca

“Era tecnicamente splendido il lavoro, si vedeva che le luci e le angolazioni erano studiate prima delle inquadrature. Ma era stranamente vuoto, senza un senso di avvicinamento drammatico, non c’era un movimento narrativo verso una vera storia; non c’era un movimento emotivo verso il pubblico. Era come parlare per telefono con un carcerato, al di là della parete di plastica.”

[Infinite Jest – David Foster Wallace]

Lo ammetto per me, Denis Villeneuve è un “uomo duplicato”. Così come da Saramago trae spunto per il suo sesto lungometraggio, per me, il regista canadese è sia l’autore potente di strabilianti messe in scena che hanno il nome di Un 32 août sur terre, Maelström, Polytechnique, La donna che canta (Incendies), Prisoners, Enemy per l’appunto, Sicario, sia di “compitini” (e che compitini, ok, ok) di grandi mezzi e minore riconoscibilità autoriale. E Dune è l’opera paradigmatica di questa dicotomia distonica.

Dune Parte 2 img 1 elena

Dune, per chi non è addentro al mondo creato da Frank Herbert, presenta un’indubbia difficoltà nell’inquadrare trame e sottotrame di questa saga che vede popoli stati, personaggi contrapposti, doppiogiochisti, eroi predestinati e non, individui sacrificabili, in un intreccio di religione, fanatismo, politica, economia e potere.

E se in certi universi si può entrare con un salto a pié pari, immergendosi in una storia di cui poco si conosce, Dune – Parte due presenta difficoltà maggiori, in quanto è un mondo inospitale, un po’ come il pianeta Arrakis, un enorme deserto battuto da violente tempeste di sabbia, privo di acqua tanto che piangere è considerato uno spreco di liquidi, abitato da giganteschi vermi sotterranei nonché riserva naturale della preziosissima “spezia” sostanza psicotropa, oggetto di traffici commerciali di vasta portata. L’immaginario filmico creato da Villeneuve tende a dare una separazione cromatica e semiotica ai mondi che vediamo: tinte calde, polverose, tagli di luce al miele che si appoggiano principalmente sui volti dei Fremen e di Paul Atreides/Timothée Chalamet e Chani/Zendaya, e chiaroscuri brutalisti che tingono lo scenario in cui si muovono gli Harkonnen con rimandi a un’estetica dagli echi musicali che mischia i Kraftwerk al côté paramilitare utilizzato da Alan Parker per The Wall, con mastodontiche parate che ricordano quelle dell’Unione Sovietica o di una dittatura che fa dello sfoggio della potenza bellica il suo punto di orgoglio e di forza.

Dune Parte 2 img 2 elena

La narrativa epica, quale sia il mezzo, fa dell’avventura, del ritmo, delle dinamiche fra i personaggi, i cardini su cui far muovere le storie. In un rincorrersi di situazioni concatenate che generano, come delle esplosioni frattali, microuniversi più o meno espansi che catturano l’attenzione di chi legge o di chi guarda. Villeneuve organizza il voluminoso contenuto, che deve pur comprimere in qualche modo, in una serie di quadri scenici un po’ disarticolati fra loro. Il materiale è tanto e, per chi lo guarda per la prima volta, può risultare contorto ricordare chi sia chi e con chi stia o sia stato in passato, passando per legami di sangue saputi o sconosciuti, agnizioni, tradimenti, complotti, mire di conquista, alleanze di comodo a favore o contro qualcuno, profezie, crociate, riti di iniziazione, casate, feudatari, titoli nobiliari, sigilli, matrimoni di interesse e progenie, memorie genetiche e telepatia intrafetale. L’avvio promette bene – la fantascienza è un pretesto cronologico che ci spara in un lontano ma neanche poi troppo anno 10191 per ambientare poi quello che è un genere da cappa e spada aggiornato ai giorni – si fa per dire – nostri.  Ma nel prosieguo, se da un lato il film si prende comunque i suoi tempi, a tratti sembra carente, sbrigativo, con un che di già visto e con una narrazione episodica che stenta a trovare un percorso fluido. Come un missaggio maldestro in cui la traccia in corso mal si raccorda a quella successiva. 

Chi come me non abita quei mondi, non conosce il riferimento letterario e dunque non ha termini di paragone né possiede parametri di confronto non si può arrogare il diritto di essere deluso da aspettative mal riposte o disattese. Si concentra sull’esperienza visiva e sul livello emozionale che uno spettacolo – di questo si tratta – deve sollecitare. E allora la pretesa si fonda sulla convinzione che chi ci sta mettendo la faccia – un cast letteralmente stellare – sia al proprio giustissimo posto. E mentre Zendaya fa il suo, il supercerbiattoso Timothée immortalato in troppi primi piani a ciglia spiegate, immette poca espressività in una figura che dovrebbe essere tormento, timore, orrore e bellezza e invece sembra indugiare compiaciuto nella propria carineria e fissità di sguardo. Assai meglio l’algido glabro psicopatico Feyd-Rautha/Justin Butler nella cui crudeltà genetica senza rimedio si intravede – senza aver bevuto la turchese Acqua della Vita estratta dai vermi – un fremito di sotterraneo spasimo di dolore nella consapevolezza intuita della propria ineluttabile sorte. Un insieme dunque visivamente a tratti convincente e però emotivamente poco coinvolgente, freddo, distaccato, anche quando si parla di amore e sentimenti.

Una certa qual prescienza ci ha reso partecipi del fatto che Denis Villeneuve sia stato indotto a seguire la strada della realizzazione di Dune – Parte tre, quasi che un destino segnato e un futuro invadente lo allontanino ancora di più e per quanto non si sa, da un suo auspicato e auspicabile ritorno alle origini, in cui dopo aver attraversato mondi lontani, approdi di nuovo alla sua amata Itaca infestata da inquietudini terrestri.

Dune Parte 2 img 3 elena
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