ASSOCIAZIONE DI PROMOZIONE SOCIALE

[SPECIALE] EMPIRE OF LIGHT | Il sapore della nostalgia

Regia: Sam Mendes

Anno: 2022

Produzione: Stati Uniti d’America, Regno Unito

una recensione a cura di Tiziana Garneri

Film intimistico e in parte autobiografico questo di Sam Mendes, ambientato a Margate, piccola cittadina del Kent inglese negli anni 80- 81 in piena epoca thatcheriana con le sue dure lotte e la povertà.

Il vero protagonista è il cinema Empire, un vecchio cinema Art déco ormai fatiscente che rivela di aver conosciuto antichi fasti.
Ormai in parte in disuso come l’ultimo piano ove un tempo una luminosa sala ospitava anche un ristorante, un pianoforte a coda, una sala da ballo; ora ammalorata, sporca, coi vetri rotti, invasa dai piccioni..
Un decadimento metaforicamente rappresentato da un piccione con un ala spezzata che curato potrà tornare a volare.

È un ritorno del regista alla sua adolescenza ed un nostalgico omaggio al Cinema con la C maiuscola ove la proiezione avveniva ancora con le “pizze”, due proiettori e la celluloide che scorreva difronte ad una lampada ad arco elettrico come ben illustra il proiezionista Norman/Toby Jones nella sua buona interpretazione e veniva emesso un sottile fascio di luce a creare la “magia” sullo schermo.
Di qui il titolo del film Empire of Light.
Da notare che la sala di proiezione è tappezzata di foto di vecchi film, interpreti e registi famosi tra cui Kubrick.

Empire of Light img 1 tiziana

Mendes credo faccia infatti un omaggio al grande Maestro perché il film si apre con la visione dell’ingresso del cinema, magistralmente fotografato nella perfetta simmetria degli scaloni, degli arredi.
E successivamente in una seguente inquadratura un po’ sbiecata del palcoscenico,
ricompare la medesima simmetria così cara al Maestro.

Si tratta dunque di un accorato rimpianto di un cinema che è stato e non è più, rimpiazzato dal digitale e dalle piattaforme al posto della sala.

È un film che però a mio parere mostra la corda nel voler affrontare ben tre temi, rischiando di toccarli in modo superficiale, non ben approfondito.

I temi sono appunto il Cinema, la malattia mentale, il razzismo.
L’Empire diventa una sorta di contenitore ove si svolgono vicende umane, avulse dal mondo esterno.

Si parla di Hilary/Olivia Colman, signora di mezza età, una bellezza un po’ sfiorita, direttrice del cinema, sola, con una vita grigia e piatta, che si sottomette ai desideri sessuali del suo capo Donald Ellis/Colin Firth, essere laido e senza scrupoli che non tiene conto che la donna è una paziente psichiatrica, bipolare in cura col litio.
In questo vi è un rimando alla vita privata di Mendes la cui madre soffrì della medesima malattia.

E poi del giovane Stephen/Micheal Ward, giovane aiutante da poco assunto, negro di Trinidad alle prese coi problemi razziali a causa del colore della pelle che sogna di fuggire a Londra per studiare architettura.

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Stephen se la deve vedere coi movimenti degli skinhead allora presenti che attaccano i “diversi”. Dopo alcune provocazioni irrompono nel cinema spaccando le vetrate, pestandolo a sangue sotto gli occhi costernati di Hilary che tenta di difenderlo, costringendolo ad un ricovero in ospedale ove la donna cercherà di stargli vicino.
Tra Hilary e Stephen nasce una empatia, un reciproco sostegno, un gusto comune per la musica, il cinema, che la donna così bisognosa di affetto scambia per amore.
Personalmente avrei agito per sottrazione perché le scene di sesso tra il giovane e la matura signora mi sono apparse del tutto superflue.
A meno di viverle come un donarsi in contrapposizione al sesso subito.

Hilary è sempre in equilibrio precario con la sua malattia ed il rendersi conto
che non vi può essere una vera storia col giovine vissuto da lei come un raggio di luce nella sua vita, la fa ripiombare in una profonda crisi.

Sarà necessario un nuovo ricovero in casa di cura.
Interessante notare che in un epoca di punk e ska, la musica di sottofondo che commenta la scena in cui la assistente sociale va a prelevarla a casa per accompagnarla in clinica è Morning Has Broken di Cat Stevens.
Le parole della melodia dolcissima parlano comunque di speranza e di una luce come quella che illumina lo schermo.

La Colman è superba nella interpretazione. Ha una mimica facciale mobilissima che fa intuire la sua gioia quando si apre in un bellissimo sorriso, la sua tristezza, la sua violenta rabbia come nella scena al cinema, per la presentazione di gala di Orizzonti di gloria quando dinanzi ad un elegante pubblico ed alla moglie del suo superiore Ellis, spiattella senza peli sulla lingua i servizietti sessuali che costui pretende da lei.
Si riconferma artista versatile e di talento.
Un po’ scialba mi è apparsa la figura di Colin Firth, mentre un plauso va al giovine Ward che pare promettere bene.

In fondo il film oltre che sulla interpretazione femminile, si regge fondamentalmente sulla fotografia grandiosa dell’ottimo Roger Deakins, sia nella scelta dei colori sia delle luci.

Rimane la nostalgia del regista che ama chiudere la sua opera come in una sorta di commiato, con la scena di Hilary che chiede al proiezionista di proiettare un film, qualsiasi film mentre lei siede tutta sola nel buio della sala vuota per godersi Oltre il giardino di Ashby.

In sintesi per me un film interessante che talora scade un po’ nell’artificio a partire dall’insistente considerazione forse un po’ retorica del “fascio di luce” che crea la magia.
Ma alla nostalgia non vi è rimedio. È un sentimento nobile che chiede rispetto.
La nostalgia è nostalgia…

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