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[SPECIALE] GREEN BORDER | Crepare lungo i bordi

Titolo originale: Zielona granica
Regia: Agnieszka Holland
Anno: 2023
Produzione: Polonia, Francia, Repubblica Ceca, Belgio

una recensione a cura di Elena Pacca

Laddove Jonathan Glazer ne La Zona di Interesse decide per l’omissione visiva, Agnieszka Holland in Green Border mostra, mostra tutto, sfacciatamente, incessantemente ingaggiando una partita violenta con la nostra capacità – possibilità e capienza – di sguardo che si colma come un catino e trabocca saturando la nostra resistenza e il chiederci invero oziosamente come sia possibile che accada quello cui stiamo assistendo. Anche qui, c’è la serialità del male, l’industria coercitiva dei flussi migratori, focalizzata al respingimento, da una parte, la Polonia e dall’altra, la Bielorussia come in una oscena partita di Pong in cui ognuno rimbalza l’altro, fatto salvo che quell’altro sono uomini, donne, bambini, adulti e anziani, senza rispetto per niente e nessuno. Facendo rispettivamente valere la legge del più forte contro un debole, affranto, indebolito, deprivato non solo di diritti ma delle più elementari possibilità di sussistenza.

Green Border img 1 elena

Filo ideale di un discorso che ci vede sempre più voltati dall’altra parte, per non guardare e dunque non vedere, testimoni muti o afoni di barbarie che si consumano a un passo da noi come a centinaia di chilometri. Ma, così come qualcuno, un’entità sospesa tra la fiaba e il controcampo a immagini solarizzate, lasciava qualche mela nei boschi  per chi ne avesse avuto bisogno ne La Zona di Interesse, qui ci sono degli attivisti che, rischiando sulla propria pelle, con scarsità di mezzi, improvvisazioni e una buona dose di coraggio, altruismo e, forse, avventatezza, cerca di offrire supporto e speranza a chi la speranza l’ha vista calpestata nel fango, nel freddo, nella fame e nella sete, nell’odioso disprezzo che dimostrano le guardie frontaliere, nella brutalità gratuita, indifferente a sentimenti di umana pietas.

Holland segue da distanza ravvicinata quanto accade a una famiglia di profughi siriani ostaggi loro malgrado del cuore nero dell’Europa. L’illusione di lasciare tutto per poter accedere a un mondo migliore. Per sé e per i propri figli. Il traguardo di una vita sradicata ma possibile. Il sogno si infrange presto lasciando il passo a un cammino irto non solo di difficoltà, ma di impossibilità di poter pensare a un ritorno. Tornare indietro non è possibile. Andare avanti non è possibile, prigionieri di una terra di mezzo che da linea di confine diventa muro invalicabile, forza ottusa e massiva che non concede varchi.

Il bosco in cui Holland immerge i suoi protagonisti è un non luogo i cui confini sono labili e invisibili. Uno spazio geografico sconosciuto e privo di contorni, in cui ci si può perdere, confondersi. Si può essere al di qua o al di là, ma sempre e comunque in un terreno di caccia in cui ci sono prede e predatori. Ma non si tratta di specie animali diverse. Si tratta di uomo contro uomo.

Green Border img 2 elena

Obbedire agli ordini: questo è ciò che semplicemente e banalmente fa chi attua la politica di governi che si fronteggiano sulla pelle dei malcapitati. L’origine e la provenienza sono determinanti. Garantiscono uno status che non a tutti è concesso. Le persone non sono persone ma entità numeriche quando non si detiene la considerazione che prevede il diritto di accoglienza. La selettività è orribilmente messa in atto come un discrimine di specie, laddove la specie è etnica, sancita dalla rispettiva nazionalità. I bambini non sono più bambini universalmente soggetti di diritti incontrovertibili ma sono insigniti di un contrassegno che li fa giocare nella serie A o nelle categorie inferiori della storia.

L’immersione nella brutalità è tanto più feroce perché quel tempo è adesso. Non c’è mediazione storica, non c’è la giusta distanza a garantire un distacco che ci pone in qual che modo al riparo e ci garantisce una sorta di impunità, quanto meno per decorrenza dei termini. Qui affondiamo nella contemporaneità. Mentre guardiamo, accade, mentre ne parliamo, accade. Il bianco e nero si oscura e ci restituisce non freddezza emotiva, ma il freddo atmosferico di quelle notti buie, di quei giorni sferzati da pioggia e vento, da quegli abiti fradici che ghiacciano chi li indossa. Il gelo che ammazza il respiro e non dà scampo a chi è più debole, a chi è più fragile, a chi a un certo punto si arrende e cede.

Un atto di accusa all’Europa, accolita di stati in cui ognuno guarda al proprio territorio/orticello, ai propri privilegi acquisiti, alla salvaguardia dei propri interessi, in un Risiko perverso in cui le persone sono pedine da sacrificare e nulla più. E se la speculazione sulle sorti di un’umanità reietta sembra non avere soluzione, è solo grazie ai singoli, alla sensibilizzazione di chi guarda e ha un moto di rifiuto che qualcosa, seppur in minima parte, può cambiare. Holland affida a un seme di speranza, la capacità di rivolta dell’individuo di fronte a un altro individuo in una catena virtuosa che parte dai singoli e può propagarsi. E alla testimonianza che il cinema, accostandosi alle storie degli ultimi, compiendo un atto politico nello scegliere e decidere cosa mostrare, possa contribuire a accendere dei riflettori. Perché la storia siamo noi.

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