ASSOCIAZIONE DI PROMOZIONE SOCIALE

SPECIALE | Il perturbante sullo schermo

IL “DOPPIO” E LE SUE DECLINAZIONI

di Chiara Lepschy e Giuseppe Minerva

«Ero seduto, solo, nello scompartimento del vagone-letto quando, per una scossa più violenta del treno, la porta che dava sulla toeletta attigua si aprì e un signore piuttosto anziano, in veste da camera, con un berretto da viaggio in testa, entrò nel mio scompartimento. Supposi che avesse sbagliato direzione nel venir via dal gabinetto che si trovava tra i due scompartimenti, e che fosse entrato da me per errore; saltai su per spiegarglielo ma mi accorsi subito, con grande sgomento, che l’intruso era la mia stessa immagine riflessa nello specchio fissato sulla porta di comunicazione. Ricordo tuttora che l’apparizione non mi piacque affatto»

Il passo tratto dal saggio Il Perturbante di Sigmund Freud illustra meglio di qualsiasi altra parola o immagine le tante implicazioni della figura del “doppio”, e ciò sia nel naturale contesto – psicologico e psicoanalitico – da cui trae origine, sia nella cosiddetta settima arte. L’aneddoto di cui è protagonista il padre della psicoanalisi ripropone, infatti, situazioni/sensazioni ben rappresentate nelle opere cinematografiche riconducibili al perturbante e, in particolare, alla figura del “doppio”. E ai suoi effetti e conseguenze sulle vicende narrate.

Non si può non iniziare, di conseguenza, dalla contrapposizione psicoanalitica per eccellenza fra il “doppio” buono e cattivo, ben rappresentata dalle versioni storiche de Il dottor Jekyll e Mr. Hyde con Fredric March (1931) e Spencer Tracy (1941), nonché dalla sua rivisitazione moderna nello Smeagol/Gollum della trilogia de Il Signore degli Anelli di Peter Jackson e dal personaggio a cui dà vita Jake Gyllenhaal in Enemy di Denis Villeneuve. In quest’ultimo caso, il “doppio” non solo presenta le classiche caratteristiche “speculari” ma costituisce quasi un io socialmente alternativo che cerca di rispondere al quesito “Come avrei voluto essere?”.

Alla declinazione principale si aggiunge la variante del “doppio” umano/ferino di film come Cat People di Jacques Tourneur (e del remake Il bacio della pantera di Paul Schrader) e Un lupo mannaro americano a Londra di John Landis, in cui la controparte animale è talvolta vissuta come fuga dalle convenzioni e liberazione degli istinti verso stili di vita alternativi che si vorrebbero o potrebbero seguire.

Un’ulteriore e interessante evoluzione è quella del “doppio” che – pur restando ancorato allo schema buono/cattivo – ha relazione con l’artificiale, altro elemento chiave del perturbante. Rappresentativa, in questo caso, è la figura dei cyborg interpretati da Michael Fassbender in Alien: Covenant di Ridley Scott, in cui due differenti versioni del “robot” sviluppano comportamenti eticamente opposti, retto e collaborativo la prima e crudele e deviante la seconda.

E proprio all’incrocio fra uomo e macchina si colloca il più ampio e filosofico confronto fra l’uomo e il suo “doppio” artificiale – l’androide -, reso memorabile dall’incontro/scontro fra l’umano Rick Deckard (Harrison Ford) e l’artificiale Roy Batty (Rutger Hauer) nel Blade Runner di Ridley Scott, riaffrontato – più recentemente – in Ex Machina di Alex Garland. In ambedue i casi, la contrapposizione fra l’uomo e il suo “doppio” evidenzia, pur nella somiglianza di umano e cyborg, una temuta e preoccupante incompatibilità.

Per concludere, una doverosa citazione del caso “limite”, oltremodo perturbante, dell’incontro (inconsapevole sia per il protagonista, sia per lo spettatore fino all’epilogo finale) di un essere umano con se stesso, magistralmente narrato in Predestination dei fratelli Michael e Peter Spierig (peraltro gemelli!) grazie ai paradossi del viaggio nel tempo portati alle loro più estreme conseguenze.

DI E DEL PERTURBANTE SECONDO I FRATELLI COEN

di Tiziana Garneri

Iniziando da Freud, il perturbante – unheimlich in tedesco – è una qualità del sentire che varia da individuo a individuo perché va a toccare le sue corde più profonde.
Il perturbante – ci dice lo psicanalista – è quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da tempo, oppure qualcosa per cui ci si sente a disagio, confusi in uno stato di disturbante incertezza.

Dal punto di vista cinematografico, un film che mi ha suscitato forti sensazioni collegate al perturbante è L’uomo che non c’era/The Man Who Wasn’t There, girato nel 2001 con la regia dei fratelli Coen.
Mi sono interrogata sul perché e ho cercato di rispondermi.

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Di per sé è un raffinato film noir che rispetta tutti i topoi del genere: eccellente, spietato, reale. È ambientato negli Stati Uniti nel dopoguerra, ove la voglia di ricchezza trasuda ovunque.

Il personaggio principale è Ed/Billy Bob Thorton, di cui inizialmente si vedono soltanto i piedi e i capelli che cadono sotto i colpi di forbice, per poi percepirne la figura intera nella sua mansione di barbiere… sino ad inquadrarne il viso, anemico per tutto il film, con la perenne sigaretta che pende dalle labbra, che trovo inquietante. Ed è un uomo silenzioso e riflessivo. Parla solo la sua voce fuori campo, che ci mette a contatto coi suoi pensieri.

Al di là della trama e degli altri personaggi, la figura centrale di Ed odora di morte: egli la ricerca inconsciamente, stanco di una vita piatta ed insulsa, ove qualsiasi cosa lascia svogliati e perplessi. Come la prospettiva di investire capitali rubati per aprire con un socio una lavanderia a secco. Mai una parola, mai un batter di ciglio, Ed ricerca il proprio annullamento.

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Lo troverà, ed insieme ad esso la pace con la morte sulla sedia elettrica, il solito viso amimico e inespressivo, in una splendida inquadratura della stanza di un bianco accecante sulle note della Patetica di Beethoven. Così il cerchio si chiude e Ed diventa anche fisicamente “l’uomo che non c’era”.

A mio parere, gli elementi che contribuiscono a creare questo clima – che sarebbe riduttivo definire suspense – sono la splendida fotografia di Roger Deakins, che gira a colori una pellicola poi convertita in bianco e nero. Un bianco e nero elegantissimo ed inquietante, con le ombre lunghe, le luci spesso in diagonale, e particolari come il cerchione di ruota che, chiaro, corre attraverso l’oscurità dopo l’incidente in macchina.

Ciò che contribuisce a turbarmi in questo film è che tutto rimane sempre come un puzzle scomposto, dove si pensa di andare in una direzione e poi tutto si capovolge, in un clima sempre sospeso e poco decifrabile.
Paradigmatico è forse ciò che afferma l’avvocato che difende Doris, la moglie di Ed: rifacendosi alla fisica ed al principio di Heisenberg ci rammenta che l’atto stesso del guardare modifica ciò che si guarda.

La storia di questo piccolo uomo, talmente insignificante che per gli altri sembra non esistere, gira attorno a queste grigie riflessioni.
L’unico spiraglio di luce in tanta cupezza è la figura di Birdy, una Scarlett Johansson giovanissima e vagamente lolitesca, che ci accompagna con le Sonate al chiaro di luna di Beethoven, unica figura che strappa un abbozzo di sorriso a Ed.

Personalmente non ho vissuto L’uomo che non c’era come il solito noir. A darmi sensazioni particolari, turbandomi in maniera indecifrabile, deve essere stata la percezione nell’aria di una certa atmosfera di decomposizione, che ho sentito sin dall’inizio in una calma sala da barbiere, dove il viso di Ed mi ha sorprendentemente suscitato una mistura inedita di ansia e di pena…

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