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[SPECIALE] IL SOL DELL’AVVENIRE | Con le mani, con le mani, con le mani, ciao ciao

Regia: Nanni Moretti

Anno: 2023

Produzione: Italia

una recensione a cura di Elena Pacca

Occhi dolci, cuori infranti
Che spavento, come il vento
Questa terra sparirà
Nel silenzio della crisi generale
Ti saluto con amore

[La rappresentante di Lista]

I tic, le idiosincrasie, la recitazione parossistica, le canzoni cantate, i dolci, i feticci, le incursioni cittadine in vespa/monopattino, l’importanza delle parole… il kitsch… tutti gli strumenti di Nanni, chirurgo-demiurgo, in procinto di operare sul momento storico-personale malato, sono disposti con cura, allineati, pronti a essere utilizzati e a servire la causa morettiana.
Ne sorridiamo, come di quelle cose note che ci smuovono un ricordo, un déjà-vu, gli amabili resti del passato che raccontiamo agli amici per sentirci parte di quel ricordo, di quel vissuto che da piccoli episodi si fa romanzo delle nostre vite, epica delle nostre unicità condivise. Ci compiacciamo nel riconoscere gli indizi, le tracce che Moretti dissemina come briciole di Pollicino per farci tornare a casa. Ma la strada è diversa, la casa non è più la stessa, anche noi siamo cambiati e ci perdiamo in un racconto di cui riconosciamo l’onestà ma in cui facciamo un po’ fatica a ritrovarci.

Il sol dellavvenire img 2 elena

Avvertiamo un che di esagerato, sovrabbondante, di quel troppo che stroppia e che ci impedisce di aderire e di empatizzare con la storia di Giovanni/Nanni Moretti, di sua moglie Paola/Margherita Buy e di quella figlia strana che si accoppia con un anziano ancor più strano e per nulla fascinoso. Insomma tutte quelle cose che nel giovane e poi maturo Moretti davano la sua inequivocabile impronta e che aspettavamo al varco delle sequenze (i nostri momenti what the fuck!) per dirci soddisfatti (o irritati per chi non amandolo continuava ad andare a vedere i suoi film) e, in qualche modo, confortati e rassicurati. Anche senza essere d’accordo, ma con il vezzo di dirci appagati. E lo spettatore dei film questo desidera. Ora invece, non ce ne voglia Nanni, sembra la reiterazione un po’ sclerotica di quel cicaleccio di anziani che ripetono le stesse cose come fossero inedite, dimenticandosi di averle già raccontate cinque minuti/cinque anni prima. Insomma quelle situazioni che stancamente si ripetono senza tempo/una musica per pochi amici come tre anni fa, se solo Moretti avesse introdotto anche Edoardo Bennato fra i suoi numi tutelari canori.
Non giriamoci intorno, chi ama Nanni Moretti, lo ama come un amico, uno di quelli di cui ami pregi e difetti, perché è sia per i primi sia per i secondi, quella summa unica e imprescindibile di imperfezioni che, appunto, lo ami. Però quando un po’ ti delude ne sei inevitabilmente anche un po’ dispiaciuto perché vorresti concedergli e concederti il lusso dell’adesione totale, vorresti che tutto quello che fa ti piacesse. Detto ciò possiamo dire di Moretti che è uno che ama il cinema. Profondamente. Il suo ma non solo. E non solo quello che inserisce manifestamente. Quel cinema che ha un potere taumaturgico, che come l’amore, appunto, move il sole – quale che sia l’avvenire – e l’altre stelle. Moretti è quello che, giovanissimo, abbandona la scuola, lo sport, quella pallanuoto che tornerà a gran forza in Palombella rossa e la politica attiva per dedicarsi o affidarsi al cinema, alla possibilità di farlo e di realizzare i sogni attraverso quello. E che Moretti ami il cinema non è una frase fatta – tutti i cineasti dovrebbero amarlo – potrebbe suonare addirittura pleonastico. Ma chi ha potuto vederlo aggirarsi a tutte le ore, in qualità di direttore del Torino Film Festival qualche anno fa, sbloccando personalmente la rush line (sembra quasi uno sgarbo personale chiamarla così) per non lasciar fuori nessuno fino a coprire tutti i posti disponibili in sala, chi l’ha visto avvicinarsi bonariamente luciferino a chiunque volesse avvicinarsi a lui, chi una notte l’ha visto sbucare a grandi falcate da una via del centro, da solo, intabarrato nel loden, così silenziosamente da fare un balzo di spavento (forse dotato delle silenziosissime Clarks di gaberiana memoria), sa che l’amore per il cinema è una solida realtà con cui dobbiamo fare i conti nella sua cinematografia. Inteso come meccanismo celeste in grado di suscitare emozioni, speranze, di creare storie e di farcele amare. Vera/Barbora Bobulova, militante comunista, la protagonista del film di Giovanni, insieme a Ennio/Silvio Orlando segretario della sezione del P.C.I. del Quarticciolo, ambientato negli anni ’50 a Roma, gli dice che c’è un malinteso di fondo. Il suo non è un film politico ma è un film pessimista sull’amore. E anche quello per la politica è, in fondo, un sentimento destinato a scontrarsi con realtà che non ci piacciono, che disilludono come sottolineano le strofe della Canzone dell’amore perduto – una tra le tante che punteggiano il film.

Il sol dellavvenire img 1 elena

Perché Il sol dell’avvenire è un film nel film in cui si parla di altri progetti di film, da  quello su una coppia suggellato da canzoni italiane, a quello tratto dal racconto “Il Nuotatore” di John Cheever, a quello di genere di cui è produttrice sua moglie; una matrioska in cui si rimpicciolisce l’ideale comunista che da utopia ideale si realizza come utopia fattuale o meglio ucronia ipotizzando i giorni del se, e immaginando che se lo strappo dall’Unione Sovietica fosse avvenuto nel ’56, proprio a causa dei fatti d’Ungheria, si sarebbe realizzato il sogno comunista di una società di migliori (Togliatti compreso) dove marciare finalmente riappacificati col passato.
Tarantino faceva un se della storia stravolgendo e anticipando, in Inglourious Basterds, la fine del nazismo come una ribellione salvifica e sacrificale attraverso il cinema e il suo luogo per antonomasia cioè la sala, qui parrebbe che lo strappo da Mosca (lo straaap onomatopeico e predittivo di eliminazione di Stalin dal manifesto della sezione) altro non avrebbe prodotto che una fine anticipata di quell’ideale comunista che coinvolse due milioni di iscritti e molti più votanti per traghettare anzitempo l’Italia in una delle tante socialdemocrazie occidentali.
Un finale malinconico nonostante il sorriso, che però è un indulgere su chi, mettendosi al contempo pudicamente e sfacciatamente a nudo sia dietro sia davanti alla macchina da presa, non ha mai ingannato il suo pubblico, o per meglio dire il pubblico, anche coloro che non si possono considerare suoi. E in tempi di ammiccamenti, captatio benevolentiae e arruffianamenti vari è, comunque, – per usare un’espressione usurata che, presumibilmente, detesterebbe – tanta roba.
L’utopia è là, all’orizzonte. Continuiamo a camminare. Senza perdere la tenerezza.

Il sol dellavvenire img 3 elena
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