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[SPECIALE] LA ZONA D’INTERESSE | Il rumore degli innocenti

Titolo originale: The Zone of Interest
Regia: Jonathan Glazer
Anno: 2023
Produzione: Regno Unito, Polonia

una recensione a cura di Elena Pacca

Si parte dal buio totale, immersivo. Quello in cui ci apprestiamo a scendere. E quello che starà sempre al di là della siepe, al di là del muro. Una barriera fisica che impedisce quasi totalmente la visuale dell’orrore ma che non impedisce a sensi quali udito e olfatto di valicare il confine della nostra percezione.

Un ambiente rurale idilliaco, i prati, il fiume, un déjeuner sur l’herbe in cui, come all’inizio di Velluto Blu di David Lynch, sotto quel paesaggio di bellezza inconfutabile si nasconde qualcosa di marcio. Si nasconde il male perpetrato come dovere metodologicamente attivo da parte del coniuge maschile, il Comandante di Auschwitz Rudolf Höss, e come diritto passivo/aggressivo da parte di Hedwig, sua moglie.

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Una famiglia che abita una bella casa con un giardino e una serra tenuti meravigliosamente. Una sorta di hortus conclusus, tante specie di fiori, con immagini in primo piano come su una rivista di giardinaggio, per coglierne appieno la magnificenza. Occupazione che più richiama all’ozio, al tempo libero, a quello necessario per curarlo e alla contemplazione della grazia multiforme e multicolore. Che importa che il concime provenga dalle ceneri del campo adiacente? Quello da cui si levano ritmicamente, a orari precisi, alte colonne di fumo e talvolta fiamme che vediamo riflesse indirettamente sui vetri delle finestre? Il rumore è un rumore costante, incombente, che riempie di significato il silenzio che aleggia tra le persone che abitano la casa. E’ un rumore quasi performativo: ci sono grida, voci acute, gemiti, spari, tonfi, boati, qualcosa di indefinito, un’opera composita, polifonica sinfonia di un martirio, sonorizzazione di una realtà agghiacciante.

La vita che si vive al di qua del muro, ai bordi dell’orrore, tra feste, barbecue, tuffi nella piccola piscina, stesi al sole sulle sdraio come sul bagnasciuga di una spiaggia personale, è cadenzata da una normalità che fa male e fa paura. Gli abiti sottratti ai deportati sono oggetto di desiderio realizzato – la pelliccia lunga – che Hedwig indossa rimirandosi allo specchio in un attimo fuggente di abbandono alla femminea vanità per poi ridestarsi e controllare se nelle fodere sia cucito qualcosa di prezioso che aggiungerebbe rilevanza a quanto sottratto, a quelle persone che tanto non avranno più modo di indossare alcunché. Così come i tubetti di dentifricio – “ricordiamoci di prenderne altri” – vedi mai che ci si trovi un prezioso diamante come già è accaduto. Così come le camicette gettate a mucchio perché siano scelte anch’esse dalla servitù. Il riflesso mentale – perché nulla si vede – corre alla memoria acquisita dei corpi nudi, ammassati in fosse di morte che prima hanno subito l’onta, la vergogna, l’umiliazione, la perdita di dignità di aver sfilato da vivi lungo il percorso verso la fine della loro esistenza.

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Glazer usa il registro della freddezza. Una criogenesi emotiva che non fa sconti e ci fa sentire scomodissimi sulla sedia. Perché il gelo che risale a ormai ottant’anni fa si fa sentire anche ora. La rappresentazione è di geometrico rigore. I personaggi si muovono perfettamente a loro agio nell’ allestimento di una vita perfetta e perfettibile. Un meccanismo oliato che, anche quando sembra incepparsi, trova poi il modo di riprendere a girare. Vivono la loro vita sognando ancora il meglio a guerra terminata, guidati da una fede cieca in sé stessi e nelle proprie capacità. Nel progetto e nella precisione quasi ossessiva di Höss c’è un’aberrazione quasi calvinista di senso del dovere, di missione nel dare il massimo nell’ espletamento delle proprie funzioni, quali esse siano, in questo caso la “produttività” del campo di concentramento, la massimizzazione e l’ottimizzazione dello sterminio.  Ci sono lo studio analitico e il metodo – la proposta della circolarità – un’ applicazione diligente e scrupolosa, quasi a meritarsi il premio produzione di una fabbrica qualsiasi.

Qui non c’è un vero villain. Ci sono un uomo, una donna e i loro bambini sordi al rumore al di là del muro. L’importante è che sia garantito il loro quieto vivere adornato di bellezza e di possibilità. E mai come in questo caso la metafora del guardare solo al proprio orticello e non vedere/sentire cosa accade fuori è rappresentazione coessenziale della realtà, allora come ora.  Il confine tra chi siamo e chi potremmo essere è davvero sottile. Cadere al di qua o al di là della rete – ricordiamoci di Match Point – è un attimo. Il male è assolutamente normale, corollario di un patrimonio genetico che non ci mette al riparo, ora come allora. A distanza di giorni questo film rimbomba. Come un farmaco a effetto retard, rilascia a intervalli regolari il suo carico durissimo. Il non vedere cui ci sottopone Glazer apre varchi enormi all’ immaginazione, a quanto vissuto/studiato/ricordato da ciascuno di noi. Al portato che quelle vite apparentemente banali, mediocri, ingannevolmente innocue, ha esercitato sulla storia. Credo che noi spettatori, siamo rappresentati da quel cane, praticamente onnipresente in scena, irrequieto, che entra ed esce dalle inquadrature in un moto perpetuo, di qua e di là, testimone quasi invasivo di ciò che accade, che sembra volerci essere sempre e poi si dilegua. 

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Sul finale seguiamo Rudolf Höss scendere lungo scale, attraversare corridoi vuoti, disadorni, lugubri, prodromo degli esiti verso cui volgerà la parabola nazista. E come sintomo di un’afflizione futura, assistiamo a dei conati di vomito, a una contrattura posturale che piega quest’ uomo tutto d’un pezzo. Tuttavia pare solo uno sbocco di bile, una rabbia trattenuta e rigettata e poi siamo ad oggi. Le addette passano gli stracci, spazzano a terra. Eseguono un altro tipo di pulizia in quegli stessi luoghi, lungo vetrine che sono il deposito della memoria. La parola pulizia cortocircuita un contatto tra quella di un popolo verso l’altro e di un rimosso, che fa della storia un elemento eliminabile come la polvere con un panno oppure, per contro, utile per togliere lo strato accumulato e riportare in luce quanto ciò che spesso si dimentica.

Il non rappresentare direttamente la malvagità e l’abiezione dei campi di concentramento non attiene alla regola che portò Jacques Rivette a stigmatizzare Kapò di Pontecorvo, per la spettacolarizzazione della morte . Il non vedere non ci fa empatizzare con una vittima in particolare perché le vittime sono milioni e ciò che rimane è un macabro accumulo di effetti personali appartenuti a persone che avevano un volto, un nome, un legame familiare, senza la possibilità di farne assurgere poche a discapito di tutte.

Non so se questo sia e/o sarà il film definitivo sull’olocausto. Sicuramente è un modo che si prende dei rischi – la non comprensione, la freddezza per l’appunto, il mancato innesco di un sentimento di pietas diretto – ma lo fa con una coerenza senza cedimenti. Ci lascia crudelmente faccia a faccia con noi stessi, senza appigli consolatori, compartecipativi. Non ci fa commuovere, ci indurisce e solo svuotando il nostro personale cassetto interiore siamo in grado di trovare quell’aggancio in grado di far sciogliere la patina che sembra renderci impermeabili.

Agganciate alle pareti come telecamere di sorveglianza, o fisse, le riprese sono quasi asettiche, incidentali. Registrano senza apparente intenzionalità, l’accadere, il susseguirsi delle persone dentro e fuori dagli spazi assegnati, delimitato come da quinte sceniche. Un approccio razionale e razionalistico per architettura filmica. Al rumore si contrappone un silenzio emotivo raggelante che nulla concede all’indugio pietistico e autoassolutorio e urla intimamente lasciandoci annichiliti. Il male è davvero un abito che si può indossare un mattino aprendo l’armadio del nostro essere disumanamente uomini e iniziare a vessarne altri che siano uno o una moltitudine. Percepire l’orrore come qualcosa che ci appartiene, non discostandoci, non pensare che noi non siamo come loro è forse l’unica strada per prendere coscienza di una realtà feroce e tentare di trasformarla. Per noi, per gli altri.

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